«Livio Milanesio ci racconta la storia di suo padre, un deportato piuttosto anomalo ai tempi della Seconda Guerra Mondiale. (…) Più che la guerra, è il cibo il grande protagonista della vicenda. Prima ragione di sopravvivenza, poi di relazioni. E infine, motivo di redenzione. Insomma, nel romanzo, la cucina si fa linguaggio universale, al di là del bene, del male, dei giusti o dei cattivi. “Cullavo questo progetto da molti anni. È una storia di famiglia ma allo stesso tempo universale. Molti degli episodi che racconto sono accaduti davvero. Mi sono aggrappato ai ricordi rarefatti di mio padre, credibile proprio in quanto testimone puro degli eventi. Io non sono uno storico. Ma quel che più conta è che le situazioni, i luoghi e il contesto sono stati accertati”».
La fine della Seconda guerra mondiale è nell’aria, ma nella campagna piemontese il vecchio Benito Sereno spera che duri ancora quel tanto che gli serve per intascare una lauta ricompensa, consegnando al regime fascista tre “articoli” interessanti: Michele, un partigiano, suo fratello minore Dino, colpevole solo di avere fattezze giudaiche, e la ribelle Teresa, la madre che li protegge con le unghie e con i denti. Michele sarà deportato a Chemnitz e Dino a Königsbrück. Nel suo viaggio il ragazzo verrà accompagnato da uno strano personaggio, un nano “di eccezionale altezza” che gli farà da guida. All’Offizierskasino del lager vivrà una prigionia “dorata” che rafforzerà in lui l’attitudine a distogliere lo sguardo dall’orrore che lo circonda. Nella palazzina del Circolo stringerà amicizie, imparerà a cucinare e intreccerà una delicata storia d’amore con una Helferin tedesca. Ma la guerra incombe: arrivano i bombardamenti, l’avanzata sovietica e quella degli americani, il crollo della Germania nazista. Dino ritrova Michele, segnato dalla prigionia, e vagando per la Germania distrutta è finalmente obbligato a vedere tutto quello che gli era stato risparmiato: le fosse dei cadaveri a cielo aperto, le vittime delle deportazioni, la disumanità, la distruzione.
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