«La Corea del Nord è un grosso buco nero. Non è la Svizzera pulita e ordinata che pretenderebbe Antonio Razzi, uno che con l’italiano arranca e sembra avere più dimestichezza con le serre di pomodori che con i Lager. La Corea del Nord è un buco nero che separa le macchie luminose della Cina e della Corea del Sud, nelle immagini notturne scattate dai satelliti. La Corea del Nord è un buco nero anche per le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani. La Corea del Nord è un tema di scarso interesse per i lettori italiani: così hanno stabilito i grandi gruppi editoriali del nostro paese quando hanno valutato e poi scartato Escape from Camp 14 di Blaine Harden. Per finire, questo libro è stato tradotto e pubblicato da Codice Edizioni e i numeri pare gli diano ragione: in quattro mesi Fuga dal Campo 14 ha venduto più di ventimila copie. I lettori italiani, evidentemente, sono meno miopi dei loro editori (e politici).
Fuga dal Campo 14 racconta l’inferno di Shin Dong-hyuk, l’unica persona nata in un campo di prigionia nordcoreano che sia riuscita a scappare e raccontare la sua storia. A scriverla ci ha pensato Blaine Harden, giornalista americano che per quindici anni ha lavorato come corrispondente estero per il “Washington Post” e oggi collabora con il “New York Times”. È grazie al loro lavoro che possiamo fare in qualche modo luce su quello che succede all’interno del buco nero coreano.
Dimenticando di citare Razzi, Harden sostiene che, secondo i dati forniti dal governo sudcoreano, dal Dipartimento di Stato degli USA e da vari gruppi per i diritti umanitari, in Corea del Nord tra le 150.000 e le 200.000 persone vivano in condizione di schiavitù. I campi di prigionia sarebbero sei, il più grande occupa una superficie più estesa della città di Los Angeles (51 km per 40, all’incirca), quasi tutti sono circondati da recinzioni ad alta tensione, pattugliate da uomini armati e interrotte da torri di guardia. Due sono campi di rieducazione i cui ospiti possono sperare, un giorno, di essere rilasciati per buona condotta. Gli altri quattro sono campi a regime duro in cui i prigionieri considerati irrecuperabili, sono sfruttati, come manodopera, fino alla morte. Le guardie hanno licenza pressoché totale di violenza e abusi sui detenuti. Per fare un tour satellitare all’interno dei campi, è sufficiente avere installato Google Earth sul proprio computer e seguire questo link.
Shin Dong-hyuk è nato schiavo all’interno del Campo 14 perché, secondo una legge istituita da Kim Il Sung nel 1972, è legale, in Corea del Nord, incriminare i cittadini in base ai legami di sangue e parentela: «Il seme dei nemici di classe, chiunque essi siano, deve essere estirpato attraverso tre generazioni». La famiglia di Shin è reclusa all’interno del Campo 14 dal 1965 perché due fratelli del padre avevano commesso una serie di crimini imperdonabili: disturbo della quiete pubblica, atti di violenza e diserzione in Corea del Sud. I campi coreani esistono dal doppio degli anni in cui i Gulag russi sono stati attivi e da un tempo che è dodici volte quello dei Lager nazisti. Il Campo 14, quello che sembrerebbe essere il più duro fra i sei, è stato aperto nel 1959.
Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, elenca i tre scopi che un sistema concentrazionario persegue: il lavoro non retribuito, cioè schiavistico; l’eliminazione degli avversari politici; lo sterminio delle cosiddette razze inferiori. I Lager perseguivano coscienziosamente tutti e tre questi scopi. Il sistema sovietico differiva da quello nazista per la mancanza del terzo scopo e per il prevalere del primo. Quello nordcoreano è una variante di quello sovietico dove la redistribuzione del dissenso su tre generazioni di familiari del dissenziente moltiplica la forza lavoro schiavizzata che cuce divise, impacchetta cemento, costruisce dighe per la produzione dell’energia di cui il paese cronicamente scarseggia. L’economia nordcoreana è da tempo al collasso. Blaine Harden sostiene che il paese è stato mantenuto in piedi, per tutti gli anni novanta, dagli aiuti russi. Dal 2000 al 2008, la Corea del Sud si è comprata, con ingenti donazioni, una coesistenza relativamente pacifica con il bizzoso vicino. In questi ultimi anni, è cresciuta esponenzialmente l’influenza cinese e il peso delle donazioni americane. In uno scenario così instabile, il potere preserva se stesso con la propaganda e seppellisce nei campi il dissenso. «In un regime totalitario», scrive Primo Levi, «l’educazione, la propaganda e l’informazione non incontrano ostacoli: hanno un potere illimitato, di cui chi è nato e vissuto in un regime pluralistico difficilmente può costruirsi un’idea».
Il libro di Blaine Harden, come I sommersi e i salvati di Levi e La notte di Elie Wiesel, ci permette però di farci un’idea di cosa sia un campo di prigionia. A questo proposito, è interessante notare come, a dispetto della distanza temporale, geografica e culturale, i campi nazisti e quelli nordcoreani presentino numerose analogie.
C’è però una differenza sostanziale che fa di Shin, e della storia che racconta, un unicum nel panorama della letteratura concentrazionaria: Shin è nato in un campo di prigionia a regime duro. È stato messo al mondo con l’unico scopo di essere sfruttato come forza lavoro, fino alla morte. È nato schiavo e da schiavo sarebbe morto, se non fosse riuscito a scappare. È stato concepito per volere delle guardie del campo che hanno selezionato i suoi genitori e hanno permesso loro di sposarsi. Un matrimonio premio che è durato per cinque notti consecutive, più pochi incontri concessi ogni anno. L’ottava regola del Campo 14 recita: “In caso di contatto fisico di tipo sessuale non preventivamente approvato, i responsabili verranno fucilati all’istante”.
Shin non sa cosa sia l’amore materno. È nato in un inferno, è tutto ciò che conosce. L’inferno è casa sua. Solo a 22 anni, e per caso, scoprirà che esiste un mondo, al di là del filo spinato che circonda il campo, che il mondo è rotondo, esistono oggetti chiamati denaro, televisione, computer, telefono cellulare».
Andrea D’Agostino, Doppiozero (per continuare a leggere sul sito di Doppiozero, clicca QUI).
«Quando vedo le immagini dell’Olocausto mi metto a piangere come un bambino. Sto ancora cercando di diventare, dalla bestia che ero, un uomo».
«Il libro di Harden, oltre a essere una storia avvincente narrata con il cuore, porta con sé un grosso carico d’informazioni sulle crepe più buie di una nazione».
The New York Times
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