New York è stata mai davvero il centro del mondo?

Flanerí

«Ma New York è stata mai davvero il centro del mondo?

Se la mettiamo da un punto di vista musicale si direbbe di sì, almeno secondo quanto sostiene Will Hermes, critico musicale di testate come The New York Times e Rolling Stone. Hermes si riferisce a un periodo preciso, i famigerati (da noi) anni Settanta, precisamente quelli che vanno dal ’73 al ’77.  New York veniva da anni torbidi e violenti e la musica – intesa in un’accezione, premessa non eludibile, la più ampia possibile – divenne il centro di una sorta di renaissance creativa che molto avrebbe poi consegnato in eredità agli anni a venire. Si diceva, lo sguardo di Hermes è quasi ecumenico, non perché non sappia o non voglia distinguere (lo fa eccome), ma perché non si fa scrupoli di intendere l’arte musicale senza steccati di generi, di oneri linguistici, inglobando esempi di leggerezza dance o ambiti di una ricerca anche molto sofisticata.

Il subbuglio e il movimento che ravvivano di nuovo e improvvisamente la città dal ’73 comprendono la salsa e le sperimentazioni di una performer della voce, compositrice e artista visiva come Meredith Monk (da noi a suo tempo ebbe un suo piccolo ma appassionato seguito di intenditori), i primi passi importanti (e tutt’altro che facili) di Bruce Springsteen e il ruolo decisivo per l’area jazz del Newport Festival in cui fra gli altri si esibì, pochi mesi dopo aver inciso “l’epocale” Space Is The Place il leggendario Sun Ra. Se certo africanismo trovava sponde di rivendicazione culturale letteralmente ballando (dagli incroci con le matrici latine di Manu Dibango alla frenesia dei Fania All-Stars), e la semiotica disturbante dei graffiti si incideva nel paesaggio metropolitano, il lavoro seminale di La Monte Young culminava nel vinile Dream House 78’17” (in realtà uscì in Francia) che era solo quanto materialmente si potesse racchiudere in un’impresa discografica essendo quella originaria, live, tecnicamente irriproducibile: il sogno di una musica eterna che letteralmente non finirebbe mai (sopra un palco, o in loft privati, bordoni che vanno avanti per giorni e giorni) e incarna come nient’altro al mondo l’istanza di infinito connessa alle musiche della trance, alle musiche dell’estasi – desunta, in primis, dalla classicità indiana. Insomma, la scaturigine di quello che verrà chiamato minimalismo e che in quegli anni fatidici vedrà per le sale da concerto newyorchesi emergere Steve Reich, Terry Riley, Phil Glass».

Michele Lupo, Flanerì (per continuare a leggere, clicca QUI).

 

hermesAll’inizio degli anni Settanta New York era una città allo sbando: criminalità, disagio sociale, sporcizia e bancarotta economica la rendevano un posto molto diverso dalla metropoli scintillante che conosciamo oggi.
Eppure proprio in quegli anni una straordinaria esplosione creativa ne fece il laboratorio ideale in cui vennero ridefiniti e inventati tutti i generi musicali che avrebbero influenzato i decenni successivi: la scena jazz, il punk dei Ramones, la salsa dei latinos del Bronx, i New York Dolls, Springsteen e Patti Smith, la nascita della disco e della dj culture, il rap di Afrika Bambaataa, il minimalismo di Philip Glass.
Sullo sfondo una città sull’orlo del baratro, pericolosa ed elettrizzante, ruvida e pulsante, in cui le storie delle future stelle della musica si intrecciavano con quelle di personaggi equivoci, writers e artisti di ogni tipo.

Acquista il libro subito su IBS o Amazon.