Il gusto è agli antipodi dell’oggettività – Intervista a Lorena Carrara

Abbiamo intervistato Lorena Carrara, autrice di Intorno alla tavola. Cibo da leggere, cibo da mangiare, un curioso mosaico di sequenze letterarie accomunate dal tema dell’alimentazione, visto nei suoi risvolti culturali e sociali.

 

 

Ormai non c’è canale tv che non abbia un programma incentrato sulla cucina: che cosa ne pensa di questa moda d’insistere sul cibo come spettacolo?

È fuor di dubbio che, almeno da un decennio, stiamo assistendo ad una progressiva proliferazione di messaggi sul cibo: a partire dai nutrizionisti che illustrano i vantaggi dell’ultima dieta o che danno consigli su come smaltire i chili in eccesso, fino ad arrivare ai critici gastronomici e agli chef – ormai autentiche celebrità dello Star System – che vengono ospitati in ogni dove, più in qualità di opinion leader che di cuochi.

Trovo che una tale pervasività dei professionisti dell’alimentazione sia, per certi versi, sintomatica di un disagio che la società globale vive. La parossistica presenza del cibo nei media e la venerazione del pubblico per la spettacolarizzazione della cucina denotano un atteggiamento che definirei, sulla scorta di altri studiosi, quasi “schizofrenico”: proprio nel momento in cui si perde il contatto con la produzione, la preparazione e la conoscenza del cibo di ogni giorno, ci si riscopre gourmand del finesettimana ed “esteti” della nutrizione. È, per così dire, il trionfo del simulacro sulla sostanza.

Per altri versi, però, una tale attenzione al cibo è positiva: i consumatori più attenti possono infatti costruirsi, grazie alla ricchezza di informazioni facilmente accessibili, una buona competenza di base. Certo, poiché nella società globale l’abbondanza di prodotti, di messaggi e di saperi si è diffusa a discapito del tramite culturale della comunità tradizionale, sarebbe assai utile compensare con una seria e completa educazione alimentare, già a partire dall’età scolare, che fornisca al consumatore contemporaneo gli strumenti per costruire attivamente un “proprio” sistema alimentare e per orientarsi con consapevolezza nella selva dell’offerta edibile.

 

Com’è possibile che ogni cultura umana abbia sviluppato propri peculiari codici per decidere e definire qual è un buon cibo e quale no? La bontà non è un concetto oggettivo?

La varietà delle cucine rispecchia pienamente la diversità delle culture umane, delle strutture sociali, dei rituali, dei sistemi produttivi, degli stili abitativi, e così via… Vale a dire che ogni popolo ha risposto a suo modo all’esigenza fisiologica di nutrirsi, componendo e selezionando, a partire dall’ambiente e dalla realtà socio-economica esistente, un proprio repertorio alimentare.

Pensiamo a ciò che accade nei processi di acquisizione linguistica: i neonati -naturalmente predisposti ad assimilare un linguaggio- sono infatti potenzialmente in grado di articolare qualunque fonema (la lallazione e i “versetti” dei bimbi costituiscono un autentico allenamento a questo scopo). Solo in un secondo momento, attorno al primo anno di vita, fisseranno e limiteranno il loro repertorio ai fonemi usati nella lingua-madre. Qualcosa di simile accade per l’acquisizione della propria “cucina-madre”: i piccoli dell’uomo -animale onnivoro- sono potenzialmente aperti al consumo di qualsiasi oggetto commestibile, ma progressivamente, grazie a complessi meccanismi di esposizione alla propria cultura, di imitazione degli adulti o dei pari, e così via, imparano a riconoscere come “buoni” e “adatti” i cibi che sono abituati a consumare.

Certo nella realtà attuale, “liquida” e frenetica, le cose non sono così semplici. Ma, semplificando al massimo, potrei rispondere che il gusto è agli antipodi dell’oggettività, ed è determinato dalla propria società e cultura di appartenenza. Come direbbe Roland Barthes, il gusto è tautologico, giustifica sé stesso, e riflette in ogni aspetto la straordinaria variabilità delle popolazioni. Per questo è di grande interesse indagare le scelte alimentari di una determinata collettività: possono infatti dirci molto su economia, credo religioso, immaginario, strutture sociali, etc.

 

Qual è il legame tra cibo e sessualità?

È a tutti evidente quanto sia stretto questo legame ed è veramente difficile rispondere in poche parole. Certo è che molti spot pubblicitari attualmente in circolazione o alcune tra le più celebri sequenze cinematografiche ci danno il segno di quanto l’associazione sesso/alimentazione abbia pervaso il nostro immaginario.

Per capirne la ragione, per prima cosa dovremmo forse riflettere sulla comune natura libidica di cibo ed eros. Già Artusi (il padre della cucina italiana post-unitaria) notava che entrambi, pur rispondendo a delle esigenze fisiologiche primarie volte alla sopravvivenza dell’individuo e della specie, hanno come ulteriore obiettivo la ricerca del piacere e sono mossi dal desiderio.

Più di recente, invece, anche in risposta all’aumento vertiginoso delle nevrosi alimentari, alcuni psicologi hanno messo in evidenza il continuo slittamento simbolico tra la dimensione della sessualità e quella della nutrizione, come se l’attuale ossessione per il cibo fosse il contraltare della parallela liberazione sessuale (e in particolare per le donne pare che la triade cibo/sesso/amore sia fondante).

Ma a ben guardare questo legame affonda le radici nel nostro passato più remoto, tanto che ci rimangono molte spie linguistiche e lessicali ad attestarlo: chi non ha mai detto, ad esempio, quella persona “me la mangerei di baci” oppure “è proprio un bel bocconcino”?

A ciò si aggiunge, altrettanto ben radicata nella cultura occidentale (e non solo), una tradizione medico-dietetica che considerava alcuni cibi dotati di poteri afrodisiaci. Ancora oggi la scienza si interroga sui reali effetti di questi eccitanti alimenti. A mio parere, però, sono senza dubbio il contesto e l’immaginario di riferimento, dunque ancora una volta la cultura di appartenenza, a giocare il ruolo più importante in questo conturbante settore.

 

Qual è, per lei, il più bel passaggio letterario di sempre sul cibo?

La letteratura, di ogni tempo e di ogni dove, è zeppa di sequenze in cui il cibo è protagonista, e io non ne conosco che una minima parte, dunque non mi sento di rispondere in senso assoluto. Posso però dire che sono molto legata ad un passaggio di Calvino (questo autore mi ha fornito, a dire il vero, moltissimi spunti di riflessione), perché mi sembra che in esso sia racchiuso il senso (e la giustificazione teorica) del mio lavoro.

Si tratta di un brano del Cavaliere inesistente in cui suor Teodora, chiusa nella sua cella, è intenta a narrare ciò che ha visto accadere tra i paladini di Carlo Magno. Mentre scrive, i rumori e gli odori della cucina dabbasso arrivano alle sue orecchie e al suo naso, quindi vengono rielaborati e trasfusi nella pagina letteraria: così, ad esempio, lo sbatacchiare delle pentole diviene un cozzare di scudi, e l’odore dei cavoli della refezione conventuale evoca le cucine dell’armata franca. Gli odori e i sapori si trasformano in parole e, a loro volta, le parole la portano a comprendere meglio i fatti e gli esseri umani, con le loro esigenze primarie e i loro sogni, innescando un gioco di rimandi continuo.

Un altro illustre precedente me lo fornisce Rabelais, nel celebre Prologo al Gargantua, quando paragona l’atteggiamento di chi ricerca il contenuto più profondo dei testi al comportamento paziente e meticoloso di un cane che vuole succhiare il midollo dell’osso. Questi grandi autori sembrano sancire un’analogia stringente tra esigenze fisiologiche primarie, reale senso della vita, letteratura e riflessione critica sulla stessa. Così, in un certo senso, le loro parole danno autorevolezza, luce e valore alla mia ricerca sul significato del cibo.

 

Se lei potesse fare a se stessa una domanda su questo libro, che cosa si chiederebbe?

Volendo ricollegarmi alla prima domanda, mi chiederei che cosa differenzia Intorno alla tavola dai numerosi altri saggi che negli ultimi anni sono stati pubblicati sul cibo. E le risponderei che, innanzitutto, la ricerca a esso sottesa è davvero interdisciplinare e il cibo, come oggetto di riflessione, è indagato qui con un metodo inconsueto e gradevole.

Infatti ci si riavvicina al cibo attraverso le parole dei grandi autori e la letteratura si rivela, così, uno strumento molto efficace per arrivare a conoscere in profondità, in tutte le sue sfaccettature, una pratica quotidiana come quella del nutrirsi. Poiché il cibo può essere definito come un nodo di significati che si intrecciano, sarà proprio grazie alla pagina letteraria e al suo procedere diacronico e dichiarativo che i fili (antropologici, sociologici, psicologici) che lo costituiscono potranno meglio essere sciolti, dipanati e compresi.

Oltretutto, sia l’approccio, sia l’argomento a mio parere sono dotati di una promettente potenzialità didattica e formativa. Intorno alla tavola può dunque costituire un buon punto di partenza per dare avvio a quel processo di rieducazione e riflessione a tutto tondo sul cibo che abbiamo auspicato.

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