Come leggere uno scrittore

John Freeman - Come leggere uno scrittore

«Tutti i giorni, Toni Morrison si alza mentre i camion della spazzatura di New York sono impegnati a raccogliere l’immondizia, e l’inchiostro dei giornali del mattino ti imbratta ancora le dita. […] Una routine spartana che non è mai cambiata da quando ha cominciato a scrivere. Quando era una mamma single e abitava a Midtown Manhattan, lavorava in una casa editrice; si alzava tutti i giorni alle cinque (anche prima) e scriveva un po’ prima di svegliare i bambini e prepararli per andare a scuola. Toni Morrison è un’istituzione nel mondo della letteratura da così tanto tempo che è facile dimenticarsi che per quasi vent’anni ha vissuto così».

Dall’intervista a Toni Morrison

 

«”Da bambino scorrevo l’elenco telefonico e pensavo: tra cent’anni tutta questa gente sarà morta”. Gli chiedo se non lo ritenga un pensiero un po’ morboso. “Non lo so. Scrivo di cose di cui ho paura oggi, e qualche volta mi rendo conto che sono le stesse cose di cui hanno paura tutti gli altri”».

Dall’intervista a Jonathan Safran Foer

 

«Per alcuni le rivelazioni arrivano in chiesa, per altri in cima a una montagna. Quella di Haruki Murakami è arrivata il primo aprile 1978, sulla montagnetta erbosa dietro lo stadio di baseball Meji Jingu, in Giappone: “E se provassi a scrivere un romanzo?”»

Dall’intervista a Haruki Murakami

 

«Legga un libro ora, e lo rilegga tra vent’anni: le trasmetterà qualcosa di diverso».

Dall’intervista a Nadine Gordimer

 

«Se la narrativa ha un valore, è quello di “farci entrare”. Io e te possiamo essere gentili l’uno con l’altro, ma io non saprò mai cosa pensi, e tu non saprai mai cosa sto pensando io. Non ho la minima idea di come sia essere te. Per quel che ne so, che si tratti di avanguardia o di realismo, quello che muove la narrativa è soprattutto la possibilità di bucare un po’ tutte queste barriere».

Dall’intervista a David Foster Wallace

 

«Quattro anni fa, a pochi mesi dalla pubblicazione del Cacciatore di aquiloni, Khaled Hosseini è tornato in Afghanistan. È stata la prima visita dopo quasi vent’anni, e niente sembrava uguale a prima. Vent’anni di guerra avevano devastato il paese: le strade, le infrastrutture… tutto distrutto. Poi ha visto le donne. “Sembravano ridotte a figure bidimensionali […] Guardi una donna che cammina per strada, e dietro quel burqa c’è una storia: tristezza, speranza, gioia, felicità, stupidità e amore e amarezza, amore, invidia. Tutte queste cose sono là, sotto quel vestito”».

Dall’intervista a Khaled Hosseini

 

«Ha mai desiderato scrivere una storia d’amore?
Be’, una storia d’amore non puoi scriverla con cinismo. Conosco un uomo che c’è riuscito. Non è un caso che fosse un fervido militante socialista. Mi ha anche detto: “Doris, ricordati che queste cose non si possono scrivere ridendo”».

Dall’intervista a Doris Lessing

 

«”Facciamo una vita molto tranquilla”, dice lei, seduta al tavolo laccato di rosso della sala da pranzo, vicino a una stampa di Calder usata come immagine di frontespizio nella prima raccolta di poesie del marito. Lui porta un paio di jeans e sta fumando con grande soddisfazione un cigarillo. Il silenzio del condominio -guarda caso abitano qui anche la vincitrice del Booker Prize Kiran Desai e Jonathan Safran Foer- è una meraviglia, alle cinque del pomeriggio».
[…]
Osservando l’interazione intellettuale tra Paul Auster e Siri Hustvedt si capisce perché nelle opere della scrittrice continuino a comparire artisti e scrittori. Si capisce anche perché non lavorino sotto lo stesso tetto. Cinque anni fa, intervistandola, a un certo punto m’interruppi perché mi sembrava di sentire qualcuno che picchiava su una batteria. “È Paul che scrive a macchina” disse la Hustvedt con un sorriso ironico.
“Sono circa quattro anni che non lavoro più qui” precisa Auster. “Per un po’ abbiamo lavorato nello stesso posto, ma venivo interrotto di continuo, così ho pensato: “Al diavolo, torno al mio vecchio modo di lavorare. Fuori casa”».

Dall’intervista a Siri Hustvedt e Paul Auster

 

«”Funziona più o meno così: prima muoiono i tuoi nonni. Poi, col tempo, muoiono i tuoi genitori. La cosa davvero sorprendente è che comincino a morire i tuoi amici. Questo non fa parte del piano”. È questa esperienza, dice ad averlo spinto a scrivere Everyman, una formidabile riflessione sulla mortalità.
[…]
Il metodo di scrittura di Roth è sempre lo stesso da decenni. “Scrivo il testo dall’inizio alla fine; poi intervengo in bozza, ampliandolo da dentro, il che significa che di solito non lavoro per aggiunte successive. Prima di tutto viene la storia, e solo dopo capisco cosa devo sviluppare al suo interno per darle forza e renderla più interessante”.
Quando arriva a un punto in cui non gli resta altro lavoro da fare, porta il manoscritto a un gruppo selezionato di primi lettori, di cui non fa il nome. “E poi ci troviamo per tre o quattro ore, o quanto ci vuole, e ascolto ciò che hanno da dirmi. Per gran parte del tempo me ne sto zitto: tutto quello che dicono è utile, perché sento l’opinione di qualcun altro sul mio libro. È questo che mi serve. Loro prendono il libro e lo squartano, lo fanno a pezzi, e io posso tornarci su per l’assalto finale».

Dall’intervista a Philip Roth

 

«Seduto a gambe incrociate su un sontuoso divano dorato nella biblioteca del suo appartamento dell’Upper East Side, Tom Wolfe indossa il suo classico completo bianco con cravatta navy e immacolate ghette bicolore, ed è quanto di più incompatibile con un party alcolico universitario si possa immaginare in tutti gli Stati Uniti».

Dall’intervista a Tom Wolfe

 

«Domanda: “Molti suoi romanzi sono ambientati in un luogo in parte romanzato ma che trae spunto dalla sua città natale, Gaomi; un po’ come faceva Faulkner con il sud degli Stati Uniti. Cosa la spinge a ritornare a questa comunità, in parte frutto della sua immaginazione? È la consapevolezza di avere lettori in tutto il mondo muove, in qualche modo, la sua attenzione?”

Risposta: “Quando ho iniziato a scrivere l’ambientazione corrispondeva a luoghi reali, e la storia era la mia esperienza personale. Ora che una parte sempre più grande della mia opera viene pubblicata, la mia esperienza quotidiana si sta esaurendo, e ho bisogno di aggiungere un tocco di immaginazione, a volte persino un po’ di pura fantasia”».

Dall’intervista a Mo Yan

 

«Molto prima di scrivere romanzi, John Updike sognava di diventare un fumettista. “Io e Topolino abbiamo la stessa età”, dice facendo l’occhiolino, durante il nostro incontro negli uffici del suo editore americano, Alfred A. Knopf. “Disney girava spesso dei documentari su come si lavorava nei suoi studi, quindi avevo un’idea piuttosto precisa di qual era la vita del fumettista. Purtroppo non mi era altrettanto chiaro come fare ad arrivare a Burbank partendo da Shillington, Pennsylvania”».

Dall’intervista a John Updike

 

«Non è facile riconoscere Don DeLillo se lo si incontra per le strade di New York, e non perché la foto sulle copertine dei suoi libri sia vecchia di decenni: è che non rende l’idea di quanto sia minuto, esile. Forse è per questo motivo che, quando ci siamo incontrati, all’autore di Underworld, Rumore bianco e altri futuri classici della letteratura americana è stato “temporaneamente” vietato l’ingresso agli uffici del suo editore newyorkese. A quanto pare, DeLillo non ha mostrato i documenti d’identità giusti o non è stato abbastanza convincente nello spiegare il motivo della sua presenza in quel luogo; solo dopo essersi molto irritata e aver più volte alzato gli occhi al cielo, l’addetta alla sicurezza gli ha concesso di varcare la porta d’ingresso e raggiungere l’ascensore».

Dall’intervista a Don DeLillo

 

«C’è stato un tempo in cui Norman Mailer parlava molto frequentemente del Grande Libro. L’argomento era sfuggente come Moby Dick per il capitano Achab: si faceva vedere in acque periferiche nelle interviste degli anni Cinquanta, ricompariva in superficie e poi spariva in acque profonde e oscure, dalle quali tornava a fare capolino solo avvicinarsi della data di pubblicazione di un nuovo libro.
Passavano gli anni, e a ogni romanzo, da Un sogno americano a Il canto del boia, sembrava che finalmente Mailer sarebbe riuscito a trascinare la sua preda a riva. Joan Didion sostiene che Mailer ce l’ha fatta a catturare il suo grande trofeo, addirittura quattro volte, secondo quanto ha scritto sulla New York Review of Books, ma il grande leone non ne sembra davvero convinto. A ottantaquatto anni, il più pugilistico degli scrittori americani ha cominciato a fare qualcosa di stravagante: dire che probabilmente non ce la farà mai”.

Dall’intervista a Norman Mailer

 

«Ci sono due tipi di uomini in sala operatoria: quelli che hanno strizza e quelli che non ce l’hanno. Ian McEwan ha scoperto di appartenere al secondo gruppo: un anno fa, a cinquantasei anni e dopo aver già vinto diversi premi, lo scrittore ha iniziato un nuovo libro, e durante le sue ricerche ha assistito a un intervento di chirurgia cerebrale.
“Non sapevo fino a che punto le mie ginocchia avrebbero retto” confessa durante l’intervista nella sua grande casa londinese. “Ma alla prova dei fatti ho scoperto di esserne profondamente affascinato. Fin dalla prima incisione per sollevare il cuoio capelluto è stato tutto stupefacente. Non vedevo l’ora che il medico incidesse la dura madre e arrivasse al cervello vero e proprio».

Dall’intervista a Ian McEwan

 

«Uno scrittore intelligente capisce che il romanzo non è una torre d’avorio, ma una forma di scrittura che impone di sapere ciò che la gente sta facendo, che cosa sta succedendo davvero nelle loro teste, come pensano e che cosa provano. Se non lo sai, allora non puoi scriverne. Più è ricca la gamma di esperienze che fai, più ricco sarà il tuo lavoro. Uno degli aspetti che più mi piacciono di New York è che qui succedono davvero tante cose».

Dall’intervista a Salman Rushdie

 

«Per un attimo la Byatt ricorda un po’ quella bambina scontrosa che un tempo sicuramente è stata, la piccola asmatica che passava il tempo a letto leggendo Charles Dickens, Jane Austen e Walter Scott, e inventando intrecci tutti suoi. A quell’epoca i racconti non la ispiravano, e così sarebbe stato ancora per qualche tempo. “Se vent’anni fa mi avesse chiesto se potevo scrivere un racconto, la risposta sarebbe stata: no, non ne sono capace”».

Dall’intervista a Antonia S. Byatt

 

«Il mio primo appartamento a New York si trovava a Brooklyn, in una casa a schiera di proprietà della direttrice di una rivista e di suo marito, uomo silenzioso e appassionato di libri. In quella casa trascorsi un sacco di tempo davanti a uno scaffale lungo e polveroso che correva parallelo alle scale. Per prendere un volume dalla sezione F, per esempio, bisognava salire fino a metà rampa e sporgersi dalla ringhiera».

John Freeman

 

 

John Freeman - Come leggere uno scrittore

Paul Auster, Philip Roth, Don DeLillo, Ian McEwan, Mo Yan, Siri Hustvedt, Joyce Carol Oates, Dave Eggers, Norman Mailer, Antonia Byatt, Jonathan Safran Foer, Haruki Murakami, David Foster Wallace, Günter Grass. Sono solo alcuni dei grandi nomi della letteratura intervistati negli anni da John Freeman, e riuniti in questo straordinario libro.

Non succede spesso che uno scrittore apra le porte della propria officina letteraria, rivelando cosa si nasconde dietro alle parole che leggeremo (e ameremo) e cosa si nasconde dietro alle parole che non leggeremo mai. Ancora più raro è trovare un libro in cui a raccontarsi sono più di cinquanta grandi autori della narrativa e della saggistica contemporanea, diversi per pubblico, genere e stile: da David Foster Wallace a Tom Wolfe, da Philip Roth a Günter Grass, da Ian McEwan a Toni Morrison, da Don DeLillo a Oliver Sacks. Se poi a raccogliere queste “confessioni” è John Freeman, direttore di Granta, rivista-culto che ha scoperto e pubblicato il gotha della letteratura anglo-americana dell’ultimo secolo, allora ci troviamo di fronte a un caso editoriale più unico che raro.

 

 

 

 

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