Un estratto da “La struttura della teoria dell’evoluzione” di Stephen Jay Gould per festeggiare il Darwin Day


«I nostri canoni teatrali e letterari riconoscono solo alcuni tipi caratteristici di eroi. Per la maggior parte prevalentemente forti e coraggiosi; alcuni, quale osso occasionale gettato al mondo marginale degli intellettuali, possono persino trionfare per la loro intelligenza. Ma una piccola sezione di questo pantheon è stata da lungo tempo riservata all’attività marginale degli improbabili: i miti, i teneri, gli sciocchi, gli insignificanti, gli ornamentali; in breve, a personalità talmente disprezzate da passare inosservate, che divengono mostri di efficienza grazie alla loro invisibilità. Pensate alle segretarie o agli autisti che apprendono segreti essenziali perché gli aristocratici padroni si rendono appena conto della loro personalità e dicono qualsiasi cosa in loro presenza; o ai commessi e alle scolarette che attraversano inosservati le linee nemiche per portare importanti messaggi ai partigiani in territorio occupato.
Sebbene pochi studiosi abbiano considerato la questione sotto questo aspetto, amo sostenere che la componente intellettuale dell’affermazione di Darwin ricade in questa anomala categoria. Indubbiamente lui ha avuto successo per aver ideato un meccanismo, la selezione naturale, che disponeva di un’incontestabile combinazione di verificabilità e verità. Ma a un livello più generale Darwin ha trionfato consentendo ai cosiddetti miti di ereditare l’intero mondo della teoria evoluzionista.
La sua teoria respingeva e capovolgeva esplicitamente i due sistemi evolutivi ben noti in Gran Bretagna al suo tempo: quello di Lamarck (tramite l’esegesi del Lyell di Principles of Geology) e quello di Chambers (Vestiges of the Natural History of Creation, pubblicato anonimo). Entrambe le teorie affondavano profondamente le radici nel pregiudizio culturale più accreditato, descrivendo l’evoluzione come l’interazione di due forze contrastanti. La prima, considerata dominante, intrinseca e fondamentale, costituiva un progresso rispetto al vecchio eufonico (e sessista) tema della “marcia dalla monade all’uomo”. L’altra, definita secondaria, diversiva e accettata per imposizione superiore, interrompeva il flusso verso l’alto e produceva percorsi collaterali senza uscita di adattamenti specializzati, quali le talpe prive di occhi o le giraffe dal lungo collo. Darwin, grazie al suo più grande colpo di genio, prese in considerazione questa forza secondaria, propose un nuovo meccanismo operativo (la selezione naturale), ridefinendo poi questa forma primitiva di sistemazione superficiale come ampiamente sufficiente a spiegare tutta l’evoluzione; in questo modo marchiava come illusoria l’altra e più accettata spinta in direzione del progresso.
Questa discussione pone un ovvio dilemma logico: com’è possibile attribuire un tale potere a una forza già considerata irrilevante? Dopo tutto, l’evoluzione deve ancora costruire l’intero spiegamento della storia della vita e l’intero panorama tassonomico, anche se abbandoniamo il concetto dell’ordine lineare. La risposta di Darwin registra la consistenza del suo debito nei riguardi di Lyell, lo studioso più responsabile di chiunque altro della formazione dell’essenziale visione darwiniana della natura. Il tempo, solamente il tempo! (A condizione che la forza “irrilevante” dell’adattamento possa lavorare senza costrizioni, accumulando i suoi effetti infinitesimali attraverso l’immensità geologica). La piena ricchezza della teoria non può essere esaurita dalla comune affermazione secondo cui il darwinismo rappresenterebbe una versione biologica dell’“uniformitarismo” sostenuto da Lyell in campo geologico, ma non riesco a immaginare una definizione breve più accurata ed esauriente. In una lettera rivelatrice scritta a Leonard Horner nel 1844, Darwin esclamava: “Ho sempre l’impressione che i miei libri escano per metà dal cervello di Lyell […] poiché ho sempre pensato che il grande merito dei Principles [of Geology] sia quello di influire sull’intero tono mentale di una persona, in modo che quando si vede una cosa mai notata da Lyell, la si vede parzialmente attraverso i suoi occhi” (citato in Darwin, 1987, p. 55).
Nel suo sforzo di formulare un meccanismo evolutivo durante il suo annus mirabilis (in realtà poco più di due anni) fra l’approdo finale della Beagle e la presa di conoscenza di Malthus nel tardo 1838, Darwin aveva abbracciato, ma alla fine respinto, una varietà di teorie contrastanti, fra cui la mutazione, la variazione adattativa congenita e la senescenza intrinseca delle specie (vedere Gruber e Barrett, 1974; e Kohn, 1980). Un filo comune collega questi approcci ormai desueti, poiché tutti postulano un impulso interiore basato su forti spinte dalla variazione (saltazionismo) oppure sulla inerente direzionalità del cambiamento. In prevalenza queste teorie utilizzano metafore ontogenetiche, rendendo l’evoluzione inevitabile e mirata quanto lo sviluppo. Per contro, la selezione naturale si basa interamente sulla variazione lieve, isotropica, non direzionale e considera la trasformazione estesa come l’accumulo di piccoli cambiamenti prodotti dalla lotta fra gli organismi e i rispettivi ambienti (per la maggior parte biotici). Il tentativo e l’errore, un passo per volta, costituiscono la metafora centrale del darwinismo.

Questo tema dell’accumulazione incessante di cambiamenti infinitesimali attraverso l’immensità del tempo, ovvero la dottrina uniformitarista di Charles Lyell, servì da pietra di paragone a Darwin nel corso della sua vita intellettuale.
L’uniformitarismo fornisce la chiave per il suo primo libro scientifico (Darwin, 1842) sulla formazione degli atolli corallini come conseguenza dello sprofondamento persistente nel tempo delle isole oceaniche. E lo stesso tema caratterizza l’argomento centrale della sua ultima opera (1881), un libro sulla formazione della terra vegetale per opera dei lombrichi. Per coerenza con lo stile personale di tutta una vita, Darwin non scelse di scrivere un sommario o una professione di fede in termini filosofici elevati, ma di lasciare il campo gloriosamente con il suo argomento preferito. Per ironia della sorte, la sua discussione sui lombrichi ha portato a una comune interpretazione esattamente opposta alle sue intenzioni, rappresentandolo erroneamente come un vecchio naturalista traballante, incapace di valutare la differenza fra gettare un’esca e fomentare una rivoluzione, che accertando il processo evolutivo aveva avuto la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. In realtà, il libro di Darwin sui lombrichi costituisce un esempio abilmente scelto del principio più profondo che informa tutto il suo lavoro, compresa la scoperta dell’evoluzione: il potere uniformante dei piccoli cambiamenti accumulati nei tempi lunghi. Quale miglior esempio che l’umile lombrico, al lavoro letteralmente al di sotto della nostra percezione, ma che costruisce, un granello dopo l’altro, sia i nostri migliori terreni sia la topografia dell’Inghilterra. Nella prefazione (1881, p. 6) evidenzia esplicitamente l’analogia con l’evoluzione, confutando le opinioni di un certo signor Fish (uno splendido cognome in questo contesto), il quale negava che i vermi potessero contare molto “considerandone la debolezza e le dimensioni”: “Ecco un esempio di quell’incapacità di sommare gli effetti di una causa costantemente ricorrente che ha spesso ritardato il cammino della scienza, in precedenza nel caso della geologia e più recentemente in quello del principio dell’evoluzione”.
Darwin assume un tono quasi messianico trattando questo tema ne L’origine delle specie, convinto com’era che i lettori non potevano afferrare la sua tesi in favore dell’evoluzione finché non avessero accettato in cuor loro la visione uniformista. Egli ammetteva l’improbabilità a priori della sua asserzione, considerate le norme e le tradizioni del pensiero occidentale: “Nulla in prima istanza può apparire più difficile da credere che gli organi e gli istinti più complessi possano essere stati perfezionati non attraverso procedimenti superiori, seppur analoghi, alla ragione umana, bensì dall’accumulo d’innumerevoli microscopiche variazioni, ciascuna utile per il singolo possessore” (1859, p. 459). Nel breve paragrafo conclusivo dedicato alla nostra generale riluttanza ad accettare l’evoluzione, si astiene, probabilmente per motivi diplomatici, dall’identificare specifiche barriere culturali o religiose; parla invece della nostra scarsa familiarità con il cruciale postulato uniformitario: “Ma la causa principale della nostra ritrosia ad ammettere che una specie possa aver dato origine a un’altra specie distinta, risiede nel fatto che noi siamo sempre lenti nell’accettare un qualsiasi grande cambiamento di cui non vediamo le fasi intermedie […] la mente non riesce ad afferrare nella sua pienezza il significato del concetto di 100 milioni di anni; non può riassumere e percepire gli effetti di molte lievi variazioni accumulate nel corso di quasi innumerevoli generazioni” (1859, p. 481).
Per convincere i lettori del senso della forza della selezione naturale, Darwin pone continuamente l’accento sull’effetto cumulativo dei piccoli cambiamenti. Egli riserva le migliori espressioni letterarie, le metafore più sottili per questo principio motore della sua tesi, come nel noto passaggio: “Si potrebbe dire che la selezione naturale tenga sotto esame giorno per giorno, ora per ora, in tutto il mondo, ogni variazione, anche la più insignificante; respingendo ciò che è negativo, conservando e accumulando ciò che è positivo, lavorando silenziosamente e impercettibilmente, sempre e ovunque, quando se ne presenti l’occasione, per il miglioramento di ciascun essere vivente, in rapporto alle sue condizioni vitali organiche e inorganiche. Noi non riusciamo a rilevare il percorso di questi lenti cambiamenti, se non quando il tempo avrà segnato l’arco delle ere” (1859, p. 84). Sembra che Darwin quasi ci preghi di esaminare i minimi cambiamenti e le variazioni. Non dobbiamo trascurare nulla, bensì assommare, assommare, assommare: certamente non è stata ancora tracciata una chiara linea di demarcazione fra specie e sottospecie […] o, ancora, fra sottospecie e varietà ben definite, oppure fra varietà minori e diversità individuali. Queste diversità si fondono l’una con l’altra in una serie inavvertibile; e una serie imprime nella mente l’idea di una vera e propria transizione. Pertanto io considero le diversità individuali, per quanto di scarso interesse per il sistematico, come assai importanti per noi, come primo passo verso lievi varietà appena degne di essere menzionate nei lavori di storia naturale (1859, p. 51).
Vale scarsamente la pena di sottolineare l’impatto di Darwin quale uno fra la mezza dozzina di pensatori più rivoluzionari nella storia del mondo occidentale.Voglio invece porre in evidenza un aspetto più curioso della sua posizione: la continua attinenza, anzi, il suo benevolo librarsi al di sopra di quasi tutte le nostre attuali procedure. Possiamo riverire Newton e Lavoisier, personalità di eguale influenza, ma i fisici e i chimici moderni applicano davvero attivamente nello svolgimento del loro lavoro giornaliero le idee di questi fondatori? Darwin, invece, continua a dominare il nostro mondo come un colosso, a tal punto che io posso iniziare questo mio lavoro sulla struttura della teoria evoluzionista solo esponendo dettagliatamente la sua visione quale punto di partenza moderno, quale ortodossia corrente modificata solo leggermente dopo più di un secolo di lavoro. In questo libro sostengo una certa ristrutturazione sostanziale alla luce di nuovi concetti e scoperte, con l’approvazione di un numero crescente di colleghi man mano che si estende la nostra conoscenza dell’evoluzione. Ma Darwin rimane il nostro contesto e la mia proposta di ristrutturazione rappresenta un’estensione, non la sostituzione del suo pensiero. La teoria gerarchica della selezione costruisce un mondo diverso da quello di Darwin sotto aspetti molto importanti; ma noi operiamo estendendo il suo meccanismo a un campo molto più vasto di quello da lui concepito, ossia a livelli che si trovano sia al di sopra sia al di sotto della sua focalizzazione sulla lotta fra organismi.
Quando Cassio pronunciò a proposito di Cesare le parole parafrasate più sopra, vi aggiunse la sua meraviglia per lo straordinario successo da questi ottenuto: “Di quale carne si è nutrito Cesare per divenire tanto grande?”. In questo capitolo sosterrò che la costante, pervasiva rilevanza di Darwin nasce dalla sua capacità d’innovazione rivoluzionaria ai poli opposti della pratica scientifica: la strategia immediata di formulare una metodologia di ricerca quotidiana e la più generale discussione sulle cause e sui fenomeni nel mondo naturale (gli interrogativi che non cessano e vengono continuamente posti, dalle dispute universitarie ai dibattiti televisivi, fino ai dotti trattati sulla natura delle cose). La presenza di Darwin a entrambi i poli della metodologia nell’immediato e della più ampia generalizzazione teorica parte dal suo particolare atteggiamento rispetto all’importanza centrale degli eventi giornalieri, concreti, in natura e alla loro capacità di spiegare l’intera evoluzione per accumulo; da qui la mia scelta di un argomento d’apertura per questo capitolo.
Cesare aveva espresso i suoi sospetti sul conto di Cassio, temendo gli uomini che pensano troppo (tutti i despoti dovrebbero cautelarsi). Ma le sue scarne parole di lode potrebbero essere usate a proposito per sintetizzare i motivi del successo senza eguali di Darwin: “Egli legge molto, è un grande osservatore e riesce a decifrare le azioni degli uomini”».

 

 

Da La struttura della teoria dell’evoluzione, di Stephen Jay Gould.

Stephen J. Gould - La struttura della teoria dell'evoluzione

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