Tre domande a… Andrea Illy

Presidente della Fondazione Altagamma, che riunisce le imprese ambasciatrici nel mondo dello stile di vita italiano, e presidente e amministratore delegato di illycaffè e chimico di formazione, Andrea Illy (@andrea_illy) è autore di “Il sogno del caffè” (Codice Edizioni, 2015)

 

Trieste, 12/06/2009. La famiglia Illy

Che cos’è per Andrea Illy “Il sogno del caffè”?
«Quando avevo circa trent’anni mi è venuto un dubbio che non avevo mai avuto prima: stavo facendo abbastanza? Fare bene il mio lavoro, al massimo delle mie capacità, senza risparmiarmi e investendo tutto me stesso era sufficiente? Quante persone ne avrebbero tratto vantaggio, oltre a me? Per rispondermi ho provato a contarle: già allora, tra consumatori, clienti, fornitori e collaboratori si trattava di diversi milioni. Se fossimo riusciti a far crescere l’azienda sarebbero potuti diventare decine di milioni, magari centinaia. Fu in quel momento, credo, che divenne chiaro a quale progetto dedicare la mia vita: usare il caffè per contribuire a migliorare il mondo. Dieci anni dopo, facendo un primo bilancio, mi chiesi perché il caffè, sebbene fosse così importante, non godesse della stessa rilevanza del vino. Mi sono allora rivolto ad alcuni grandi specialisti di comunicazione, francesi, esperti del savoir faire e, in un gioco di parole, del faire savoir du savoir faire. Curiosamente, due su tre mi fecero la stessa domanda: “Qual è il sogno di illy?”. Non seppi rispondere. Da allora ci ho pensato mille volte, finché mi chiesi come potevo non aver ancora capito che il sogno c’era eccome, ed era quello di nonno Francesco quando fondò la illycaffè: il sogno di offrire il miglior caffè al mondo. Tre parole: offrire (nella sua accezione altruistica, ovvero “porgere”, “servire”, “dedicare”), migliore (con il suo significato virtuoso di “forte”, “valoroso”) e al mondo (con il suo doppio senso “del mondo” e “a tutto il mondo”). Mancava però ancora un passaggio cruciale: come condividere questo sogno? Come realizzarlo? La risposta è nel mio libro».

Perché il Global Coffee Forum (30 settembre-1 ottobre, Rho-FieraMilano) è un appuntamento che può rappresentare una grande svolta?
«Come ogni rivoluzione, anche quella dell’economia positiva ha bisogno di un simbolo: qualcosa che con la sua stessa essenza possa raccontare la storia di un cambiamento epocale e di una rinnovata visione di presente e futuro; un simbolo che rappresenti il concreto riavvicinamento tra ricchi e poveri, un nuovo equilibrio tra tecnologia e ambiente, un approccio imprenditoriale illuminato, sostenibile e finalmente lungimirante. Questo simbolo potrebbe essere il caffè. Cento milioni di persone lavorano in questo settore, la cui rilevanza socio-economica è talmente profonda che se la filiera fosse improntata a criteri di sola qualità e sostenibilità il cambiamento sarebbe radicale. Affinché una quota del valore aggiunto prodotto dall’aumento della qualità e di conseguenza dei prezzi arrivi anche ai coltivatori, sarà necessario che il “volto” dietro una tazzina non sia più solo quello del torrefattore, ma anche quello del coltivatore. Occorrerà anche ottimizzare tutte le filiere all’interno dei paesi produttori, accorciando quella – oggi troppo lunga – che vede il prodotto passare attraverso più mani, dal coltivatore al consumatore, sottraendo al primo rilevanti margini di guadagno. Anche se sembrano molto distanti, il mondo dei consumatori e quello dei produttori sono strettamente legati: il benessere che il consumo di caffè produce in chi lo beve è infatti direttamente connesso allo sviluppo che esso crea per i coltivatori e le comunità. Questo circolo virtuoso, incentrato sulla qualità e alimentato dai meccanismi tipici della complessità, può certamente essere rafforzato».

illyQuand’è che Andrea Illy ha bevuto il suo primo caffè e che ricordo ne ha?
«Ricordo bene il giorno in cui assaggiai il mio primo caffè. La cucina era invasa dal sole, di una luce e un’intensità che non avevo mai visto. Avevo circa quattro anni e guardavo mia madre macinare i chicchi di caffè con il nostro grande macinino. Quell’ingombrante marchingegno faceva un rumore metallico ma allegro; presidiava un mobile ancora troppo alto per me e spandeva per tutta la casa un profumo che già allora mi sembrava il più buono del mondo. In quegli anni a casa mia ci volevano tre quarti d’ora, a volte anche un’ora, per preparare un buon caffè: era un’operazione complessa e delicata, un vero e proprio rito. Per me quelli erano momenti magici: tutto quel tempo passava in pochi istanti nell’attesa di avere il permesso di assaggiare il caffè. Mia madre pesava i chicchi su un bilancino, poi li macinava, quindi esaminava con cura il risultato e non di rado accadeva che buttasse via tutto, per ricominciare da capo. La polvere di caffè con quei primi macinini non era mai della grana giusta. Lei la valutava con un’occhiata e io anche per quello l’avevo soprannominata “l’ingegnera”: mi sembrava che svolgesse un compito difficilissimo che richiedeva grande attenzione e precisione, una misurazione per me incomprensibile. Solo più tardi avrei capito quanto fosse fondamentale per ottenere la qualità che mia madre desiderava e che faceva di quel suo elisir la bevanda in assoluto più ambita nella nostra famiglia. In quel pomeriggio affollato di raggi di sole c’erano finalmente in serbo alcuni cucchiaini di caffè anche per me. Quando fu il momento, li portai con cura alle labbra, attento a non lasciarne cadere neppure una goccia. Ripensando a quell’istante mi rivedo assaporare quel profumatissimo liquido amaro e chiudere gli occhi, lasciando che nella bocca si spandessero mille sconosciuti aromi di luoghi esotici e lontani, e chiedendomi se un giorno sarei andato a visitarli. Mi piace immaginare che ogni cucchiaino mi portasse altrove, e so per certo che quando riaprivo gli occhi dopo quei viaggi di pochi secondi mia madre era lì e mi sorrideva, facendomi sentire per sempre al sicuro».

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