«In Italia la scienza è un lusso astruso; a nessuno viene in mente che, invece, è l’unico pilastro contro il declino. Così, quando abbiamo visto la bella faccia di Fabiola Giannotti sulla copertina di “Time Magazine”, una donna dell’anno 2012, ci si è stretto il cuore. È vero, la faccenda del bosone di Higgs ha riempito i giornali anche italiani, e a Fabiola qualche intervista gliel’hanno fatta, ma da qui ad essere diventata una celebrità ce ne corre. Gli scienziati in Italia non se li fila nessuno: magari pensiamo anche che facciano delle cose importanti, ma fatichiamo a capire perché queste cose sono importanti, il che significa che fatichiamo a riconoscerli come la colonna portante dello sviluppo e della modernità. Vale persino per il grande padre Galileo: per i più è un signore con la barba bianca che si mise contro la Chiesa, ma le ragioni di ciò la maggior parte degli italiani le ignora. La stessa sorte tocca a Fermi, Rubbia, Montalcini o all’uomo delle fortune Montedison, Giulio Natta: tutti Nobel. Già, ma perché?
Si fa presto a dare la colpa a don Benedetto Croce, alla scuola che nasce e resta gentiliana, alla cultura spiritualista che marchia scienza e tecnologia come frutti del demonio, o a quella post-moderna che le snobba come subculture borghesi al servizio dello sfruttamento capitalista, illusorie e ingenue come illusoria e ingenua è l’idea di progresso. Di certo è questo il terreno di coltura dove nasce e ingrassa il disinteresse della politica per la ricerca scientifica, ma, al fondo, c’è la natura stessa dell’Italia: investiamo meno di ogni paese industrializzato nella ricerca, che sola può essere oggi il generatore dell’industria (l’1,2 per cento del Pil, la metà di Germania e Stati Uniti, un terzo di Giappone e Corea), abbiamo il numero di laureati tra i più bassi dei paesi OCSE (il trentaquattresimo posto su trentasei), e paghiamo i nostri ricercatori cifre ridicole rispetto a quanto li pagano i paesi che contano (un post-doc in Italia, nel momento della sua massima creatività, non guadagna più di milleduecento euro lordi, quando li guadagna). Il fatto è che l’Italia considera marginale ed elitaria la scienza; siamo il paese dei bagnini: ci piacciono i samurai ma non capiamo cosa fanno, e per questo li mettiamo ai margini dei nostri interessi.
Questo è l’errore storico dell’Italia, quello che l’ha trascinata in un abisso dal quale, come ci dicono i grandi economisti, chissà mai se si solleverà».
Un estratto da Il bagnino e i samurai. La ricerca biomedica in Italia: un’occasione sprecata, di Daniela Minerva e Silvio Monfardini, pubblicato questa settimana da Internazionale (per continuare a leggere, clicca QUI).
Il bagnino è Carlo Sama, perché negli anni Sessanta così lo chiamavano sulle spiagge della Romagna, dove il futuro amministratore delegato di Montedison, aitante ragioniere ravennate, dava il meglio di sé conquistando la rampolla dei Ferruzzi, Alessandra.
I samurai, invece, sono sei giovanotti e una ragazza con gli occhiali che hanno dato vita alla moderna oncologia medica negli anni Sessanta in una Milano innamorata della scienza, votata al progresso e non ancora “da bere”.
Due culture e due visioni del mondo antitetiche, quelle del bagnino e dei samurai, che però si sono trovate a vivere insieme la grande occasione dell’Italia: partecipare alla partita miliardaria della guerra mondiale al cancro. La partita è stata persa, e anche l’Italia ha perso.
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