Black Mirror, la dittatura dell’istantaneo – un estratto

Wired

Chi ha visto la serie Black Mirror sa di cosa stiamo parlando. Un futuro molto vicino, in cui la nostra attuale tecnologia è portata all’estremo. Un mondo iperconnesso che rivela molto del nostro quotidiano. Quanto però? Risponde Fabio Chiusi, con l’ebook gratuito Dittature dell’istantaneo. Black Mirror e la nostra società iperconnessa, allegato al volume cartaceo Critica della democrazia digitale. La politica 2.0 alla prova dei fatti, uscito per Codice Edizioni. Eccone un estratto in esclusiva per Wired.

«La dittatura istantanea dell’opinione pubblica ha mille volti, tutti anti-utopici. Se i sei episodi autoconclusivi di Black Mirror sono legati da un filo rosso, è proprio questo messaggio di sfiducia nei confronti delle ragioni del volere collettivo, nei confronti dell’idea che siano buone, intelligenti a prescindere come vorrebbe chi nella tecnologia vede l’occasione per realizzare l’ideale millenario di un autogoverno di tutti, perché tutti sono collettivamente nel giusto. È il mito della società civile aggiornato all’era iperconnessa, ma per distruggerlo; è l’idea che l’intelligenza collettiva, fuori e dentro la rete, non produca che debolezza, dipendenza, derisione, asservimento.

In Black Mirror quel mito si ripropone sullo sfondo di quello che nella metà dei casi è un mondo identico al nostro, tranne che per un preciso aspetto tecnologico. Un mondo aumentato, ma in un solo addendo. Vale per Ricordi pericolosi, in cui la società deve imparare a convivere con un chip che consente di registrare – e riprodurre in qualunque momento, a sé o agli altri – i propri ricordi. O per Orso bianco, in cui viene inventato il suo contrario: un dispositivo che cancella la memoria. Anche in Torna da me c’è un’unica aggiunta, un algoritmo che riesce a riprodurre i modi di esprimersi e i comportamenti di un caro scomparso.

Nell’altra metà, è un mondo in cui l’opinione pubblica istantanea – quella costantemente prodotta e misurata secondo per secondo sui social media – ha preso il sopravvento. Al punto di costringere un primo ministro ad avere un rapporto sessuale con un maiale in diretta e a reti unificate (Messaggio al primo ministro), portare un pupazzo digitale al potere (Vota Waldo!, vi ricorda Grillo?) o condizionare l’intera organizzazione sociale con una promessa – l’unica – di salvezza da un incubo di schiavitù pubblicitaria cui si può scampare solo partecipando a un assurdo talent show, e vincendolo (15 milioni di celebrità).

Nessuno dei due tipi di mondi descritti è lontano dal nostro. Anzi, se ogni distopia non è una visione del futuro ma una satira del presente, è proprio questa prossimità a incutere il tremendo senso di angoscia provocato dalla visione degli episodi. Quando vediamo uomini intenti a pedalare per produrre l’energia necessaria a illuminare un talent show, quello di 15 milioni di celebrità; quando capiamo che questi uomini oberati di statistiche sono ridotti ad avatar di se stessi e dell’ambiente circostante; quando comprendiamo che sono i punteggi che producono in quella gara insensata con loro stessi e la loro umanità a definirne il valore esistenziale; quando infine riconosciamo Facebook o Spotify nei distributori automatici quando si sceglie una mela suggeriscono che “a chi piace una mela piacciono le banane“, non può non assalirci un senso di terrore per i fanatici della gamification e del movimento del Quantified Self, o per i tanti che in un modo o nell’altro comprano l’idea, riduzionista, che misurarci e darci i numeri – per così dire – renda migliori.

Quando poi la minaccia dei presunti terroristi al primo ministro, nel primo episodio della prima serie, si compie perché su YouTube il video del loro ostaggio (la principessa del Regno Unito) è diventato virale; quando il governo comprende che, per quanti divieti (e quanto assurdi) apponga alla rete e alla stampa, non ci sarà modo di impedirne la diffusione di massa, specie attraverso i media mainstream (costretti molto spesso a inseguire, proprio come accade nell’era in cui chi scrive si fonde con chi legge); quando sono i sondaggi realizzati di ora in ora a segnalare il mutare dell’opinione pubblica, e il primo ministro decide cosa fare a seconda delle percentuali che riproducono; quando assistiamo a tutto questo, non può non venire alla mente una deriva possibile (o già in atto?) del nostro ecosistema dell’informazione. Un’altra forma di asservimento al volere collettivo ma senza pensiero, alle folate del vento che il pubblico costantemente produce: “la rete” che si indigna, si rivolta, imbroglia e a volte perfino uccide.

Ma gli spunti di riflessione per problematizzare un progresso troppo spesso considerato necessario o immutabile sono anche di natura sociale. Un algoritmo in grado di riprodurre perfettamente un morto è allo stato attuale delle nostre conoscenze impossibile, ma algoritmi che imparano a comprenderci dettagliatamente – meglio di noi stessi, direbbero gli entusiasti del sé quantificato e del Big Data come paradigma descrittivo di quasi tutto –, in ogni sfumatura dei nostri gusti grazie a ciò che pubblichiamo su Facebook e disseminiamo su Google, esistono eccome. I software di riconoscimento vocale e facciale fanno passi da gigante, i tessuti sintetici pure. E cosa accadrebbe se ci trovassimo un giorno a dire a un manichino, come la protagonista di Torna da me, “Sei l’interpretazione di cose che [l’individuo replicato, nda] ha fatto senza pensare, e non è abbastanza“? Capiremmo forse, solo allora, che una persona non si può ridurre alla somma dei dati che la riguardano? O forse, come lei, protrarremmo il dubbio per tutta la vita, tenendo al fianco un simulacro – ma immortale – di chi abbiamo perso?»

Estratto pubblicato su Wired il 7 marzo 2014.

 

chiusiDittature dell’istantaneo. Black Mirror e la nostra società iperconnessa è l’ebook di Fabio Chiusi che potete scaricare gratuitamente dopo aver acquistato il suo libro Critica della democrazia digitale. La politica 2.0 alla prova dei fatti.

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