– Nuove uscite –
Saggistica: Noi siamo i nostri ormoni di Max Nieuwdorp
Dal 3 luglio in libreria e in e-book Noi siamo i nostri ormoni di Max Nieuwdorp.
«Torino è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino a ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene, devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi o camorristi, o di evasori impuniti.
La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.
Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione… Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me…». Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice – come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?».
Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». Ecco, se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica.
Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. E sarebbe un errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una destra golpista o di un populismo radicale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre. E i cultori della violenza per vocazione, o per frustrazione personale o sociale. C’era di tutto, perché quando un contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una mobilitazione tanto ampia, diversificata, multiforme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è chiedersi perché proprio qui si è materializzato questo “popolo” fino a ieri invisibile. E una protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere di massa…
Perché Torino è stata la “capitale dei forconi”? Intanto perché qui già esisteva un nucleo coeso – gli ambulanti di Porta Palazzo, i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo – che ha funzionato come principio organizzativo e detonatore della protesta, in grado di ramificarla e promuoverla capillarmente. Ma soprattutto perché Torino è la città più impoverita del Nord. Quella in cui la discontinuità prodotta dalla crisi è stata più violenta. Parlano le cifre.
Con i suoi quasi 4000 provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno precedente, uno ogni 360 abitanti come certifica il Ministero), Torino è stata definita la “capitale degli sfratti”. Per la maggior parte dovuti a “morosità incolpevole”, il caso cioè che si verifica «quando, in seguito alla perdita del lavoro o alla chiusura di un’attività, l’inquilino non può più permettersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si preannunciano, come ha denunciato il vescovo Nosiglia, per gli inquilini delle case popolari che hanno ricevuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro mensili imposti da una recente legge regionale anche a chi è classificato “incolpevole” e che non se lo possono permettere.
“Maglia nera” anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) in città, e 626 in provincia (di cui 344 tra bar e ristoranti). È l’ultima statistica disponibile, ma si può presupporre che nei mesi successivi il ritmo non sia rallentato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia) Torino si contende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “forconi”) la testa della classifica, con le sue 16.000 imprese scomparse nell’anno, cresciute ancora nel primo bimestre del 2013 del 6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella provincia».
Marco Revelli, Il manifesto (per continuare a leggere, clicca QUI).
Per approfondire l’argomento delle nuove povertà, con un focus particolare proprio sulla città di Torino, c’è il libro di Pierluigi Dovis e Chiara Saraceno, il cui titolo è emblematico e, curiosamente, quasi identico a quello dell’articolo del Manifesto: I nuovi poveri.
Le politiche di divaricazione sociale degli ultimi anni e la recente crisi finanziaria hanno portato alla povertà fasce di popolazione fino a ieri abituate a una vita dignitosa. Sono i cosiddetti “nuovi poveri”, persone che appartengono e testimoniano un’ampia zona grigia dove la mancanza di denaro significa anche insicurezza, precarietà e fragilità relazionale. Pierluigi Dovis ci regala il ritratto vivo e sentito di Torino (ma potrebbe essere una qualsiasi metropoli italiana), la città in cui ogni giorno lavora a contatto con le forme, vecchie e nuove, di disagio. Il saggio di Chiara Saraceno allarga invece la prospettiva, e la riflessione, a livello nazionale ed europeo. Insieme, gli autori conducono il lettore in un viaggio attraverso una povertà invisibile, che investe famiglie e giovani che incontriamo ogni giorno, senza riconoscerli, per le strade del nostro quartiere o per le scale del condominio, una povertà che porta con sé nuovi pericoli, l’esclusione sociale e la rottura del principio e del diritto di cittadinanza democratica.
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