Che cosa rende un contenuto virale? Se lo chiedeva già Aristotele

tomine-viral-stories2-290«Quand’era studente a Stanford, Jonah Berger aveva preso l’abitudine di leggere la pagina del Wall Street Journal che riportava una lista dei cinque articoli più letti e dei cinque articoli più condivisi. “Scendevo in biblioteca e strappavo di nascosto quella pagina”, ricorda, “Avevo notato che le cose che venivano lette e condivise erano spesso molto diverse tra loro, e mi chiedevo come fosse possibile”. Che cosa, in un determinato contenuto -un articolo, una foto, un video-, lo porta dall’essere semplicemente interessante ad essere interessante e condivisibile? Che cosa spinge una persona a non leggere una storia e basta, ma a volerla far circolare?

La domanda in sé precede l’interesse di Berger di secoli. Già nel 350 a.C. Aristotele si chiedeva che cosa potesse rendere un contenuto -nel suo caso, un discorso, un’orazione- persuasivo e memorabile, e fare in modo che le sue idee potessero passare di bocca in bocca. La risposta, sosteneva, stava in tre principi: ethos, pathos, e logos. Il contenuto dovrebbe avere un appeal etico, un appeal emotivo e un appeal logico. Un retore abile in tutte e tre le cose sarebbe stato in grado di convincere il pubblico.

Sostituite al retore un web content creator e le intuizioni di Aristotele continueranno a sembrarvi moderne. Etica, emozione, logica: è perfettamente credibile, è sensato. Se si dà un’occhiata agli ultimi link che abbiamo condiviso sul nostro profilo Facebook o Twitter, o all’ultimo articolo che abbiamo mandato/consigliato a un amico, ci sono buone probabilità che rientri in queste categorie».

Maria Konnikova, The New Yorker (per continuare a leggere l’articolo in versione originale -inglese- clicca QUI).

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