David Brooks - L'animale sociale

Viaggio nel cuore segreto dell’innamoramento: il cervello

Tratto da L’animale sociale, di David Brooks.

 

«Un giorno d’estate, un uomo e una donna si incontrarono per la prima volta. I due, di un’età compresa tra i venticinque e i trent’anni, sarebbero diventati i genitori di Harold, uno dei protagonisti di questa storia. La prima cosa che dovete sapere su questi futuri genitori è che erano entrambi di buon cuore ma abbastanza superficiali, anche se poi il loro figlio avrebbe sviluppato ben altra profondità e ambizione intellettuale.

Un comune amico aveva organizzato loro un appuntamento al buio per pranzo.

Si chiamavano Rob e Julia, e si videro per la prima volta di fronte a una libreria Barnes & Noble. Si sorrisero con calore, e questo innescò un profondo processo primordiale. Ognuno dei due vide cose diverse nell’altro. Rob, essendo un certo tipo d’uomo, assunse quasi tutte le informazioni che voleva attraverso gli occhi. I suoi antenati maschi del Pleistocene dovevano affrontare il problema che le femmine umane, a differenza di molti altri animali, non mostrano alcun segnale fisico al momento dell’ovulazione. Per cui ai cacciatori primitivi non restava altro che saper riconoscere le evidenti indicazioni di fertilità disponibili.
Quindi Rob cercò i tratti che quasi tutti i maschi eterosessuali cercano in una donna. David Buss ha esaminato oltre diecimila persone in trentasette società differenti, e ha appurato che gli standard della bellezza femminile sono praticamente gli stessi in tutto il pianeta. Ovunque gli uomini apprezzano pelle chiara, labbra piene, capelli lunghi e morbidi, lineamenti simmetrici, una distanza breve tra la bocca e il mento e tra il naso e il mento, e un rapporto giro vita/fianchi di circa 0,7. Uno studio condotto su dipinti risalenti fino a migliaia di anni fa ha dimostrato che la maggior parte delle donne raffigurate presenta questo rapporto. Anche le conigliette di Playboy tendono ad avercelo, benché l’essere più o meno in carne possa variare con le mode. Persino Twiggy, celebre per la sua magrezza, aveva un rapporto pari allo 0,73 per cento fra giro vita e fianchi.

A Rob piacque ciò che vide: fu colpito dalla vaga e allettante sensazione che Julia si muovesse bene, dato che nulla esalta la bellezza come il sentirsi sicuri di se stessi. Gli piacque il suo sorriso, e inconsciamente notò che l’estremità delle sue sopracciglia puntava verso il basso. Il muscolo orbicolare dell’occhio, che controlla questa parte, non può essere controllato a livello cosciente, per cui quando l’estremità delle sopracciglia si abbassa significa che il sorriso è genuino, non simulato. Rob registrò con favore quanto nell’insieme Julia fosse attraente, essendo consapevole a livello subliminale che le persone attraenti hanno di norma redditi nettamente più elevati.
Gli piacque anche la curva che immediatamente individuò sotto la camicetta, e ne seguì la linea con un apprezzamento che andava fin all’essenza del suo essere. In qualche punto situato nella parte posteriore del suo cervello sapeva che un seno non è altro che un organo, una massa di pelle e grasso. Eppure non riusciva a pensarci in questi termini: era costantemente colpito dalla presenza di seni intorno a sé, bastava la linea di un seno su un pezzo di carta a catalizzare la sua attenzione. L’uso del termine tetta gli produceva una sorta di fastidio a livello subliminale, perché quella parola priva di dignità non meritava di essere usata per descrivere una forma così sacra, e aveva la sensazione che venisse impiegata, soprattutto dalle donne, per prendersi gioco di questa sua martellante fissazione.

Ovviamente i seni hanno la forma che hanno proprio per suscitare questa reazione. Non ci sono altre ragioni per cui le mammelle umane siano tanto più grandi di quelle di altri primati. Le scimmie antropomorfe hanno il torace piatto. Inoltre i seni umani più voluminosi non producono più latte di quelli più piccoli: non servono a scopi nutrizionali, bensì come strumento di segnalazione, e scatenano primitivi spettacoli di luci nel cervello maschile. Coerentemente a ciò gli uomini assegnano alle donne con corpi attraenti e volti non attraenti valori più alti che alle donne con volti attraenti e corpi non attraenti. La natura non insegue l’arte per amore dell’arte, eppure produce arte.

Julia ebbe una reazione molto più pacata nel vedere quello che poteva essere il compagno della sua vita. Non perché non fosse impressionata dalle indiscutibili doti fisiche dell’uomo che le stava di fronte. Le donne sono sessualmente attratte dagli uomini con le pupille più grandi, e preferiscono uomini con lineamenti simmetrici e leggermente più vecchi, alti e forti di loro. In base a questi parametri, il futuro padre di Harold superava il test a pieni voti.
Il fatto è che lei, per natura e per educazione, era prudente e lenta a fidarsi. Come l’89 per cento delle persone non credeva nell’amore a prima vista. Per giunta era meno indotta di quanto fosse il suo futuro marito a far caso alle apparenze: le donne, in genere, con la vista si eccitano meno degli uomini, caratteristica che ha praticamente tagliato in due il mercato della pornografia. Questo perché, mentre i maschi del Pleistocene potevano scegliersi le compagne in base a indizi di fertilità che potevano individuare a una prima occhiata, le femmine del Pleistocene avevano di fronte a sé un problema ben più complesso: i cuccioli umani richiedono anni per raggiungere l’autosufficienza, e una donna single in un ambiente preistorico non era in grado di raccogliere abbastanza calorie per allevare una famiglia. Quindi era costretta a scegliere un uomo non solo per l’inseminazione ma per creare comunanza e avere un sostegno continuo. Ancora oggi, quando una donna mette gli occhi su un potenziale compagno, il suo schema temporale è diverso da quello dell’uomo.

Ecco perché gli uomini vorrebbero andare a letto molto più velocemente delle donne. Vari gruppi di ricerca hanno condotto un semplice studio. Una donna attraente ha fatto delle avance a uomini che frequentano il college e ha chiesto loro di fare sesso con lei: il 70 per cento degli uomini ha risposto di sì, risultato che si è mantenuto costante in tutti gli studi. Una volta invertiti i ruoli, la percentuale è precipitata fino allo 0 per cento.

Le donne fanno bene a stare attente. Mentre quasi tutti gli uomini sono fertili, c’è un’ampia variabilità tra gli esponenti di sesso maschile per quanto riguarda la stabilità. Gli uomini hanno una probabilità più elevata delle donne di sviluppare una dipendenza da droga o alcol, una probabilità molto più elevata di uccidere e una probabilità molto ma molto più elevata di abbandonare i propri figli. Insomma, arrivano più fregature dai maschi che dalle femmine, e le donne hanno scoperto che conviene cedere qualche punto sul terreno della “prima impressione” in cambio di affidabilità e intelligenza sociale.
Così, mentre Rob si perdeva estasiato nella scollatura, Julia cercava segnali di attendibilità. Non aveva bisogno di farlo a livello cosciente: migliaia di anni di genetica e di cultura avevano affinato i suoi sensori della fiducia.

Marion Eals e Irwin Silverman, della York University di Toronto, hanno condotto studi secondo i quali le donne sarebbero in media dal 60 al 70 per cento più competenti degli uomini nel ricordare i dettagli di una scena e le ubicazioni di oggetti collocati in una stanza. Anni prima Julia aveva usato le proprie capacità di osservazione per scartare intere categorie di uomini come potenziali partner, anche se alcune delle sue scelte erano state dettate dall’idiosincrasia. Aveva rifiutato uomini che indossavano i Burberry perché non poteva pensare di avere sotto gli occhi per il resto della sua vita quello stesso disegno scozzese su sciarpe e impermeabili. A volte riusciva a individuare a prima vista i ragazzi che non conoscevano bene l’ortografia, e le facevano subito passare la voglia. Considerava gli uomini che si profumano allo stesso modo in cui Churchill considerava i tedeschi: o ce li avevi ai piedi o alla gola. E poi: non avrebbe avuto niente a che fare con uomini che portavano gioielli legati allo sport, perché il suo fidanzato non avrebbe dovuto amare nessun campione sportivo più di lei; e, anche se di recente c’era stato un capriccio passeggero per gli uomini abili in cucina, non aveva la minima intenzione di avere un rapporto serio con qualcuno che sapesse affettare o fare a dadini meglio di lei, o che volesse sorprenderla con compiaciuta modestia con un sandwich di formaggio grigliato come regalo di riappacificazione dopo una lite. Avrebbe significato dargli troppo potere nel rapporto di coppia.

Julia guardò furtiva Rob mentre si avvicinava lungo il marciapiede. Janine Willis e Alexander Todorov, di Princeton, hanno scoperto che una persona può emettere giudizi istantanei sull’affidabilità, la competenza, l’aggressività e la simpatia di un’altra persona nel giro di un decimo di secondo. Queste prime occhiate sono sorprendentemente accurate nel prevedere cosa le stesse persone sentiranno l’una per l’altra mesi più tardi. Raramente si corregge il tiro su queste prime impressioni; si è invece sempre più sicuri di avere avuto ragione. In un’altra ricerca Todorov ha sottoposto per qualche microsecondo ai soggetti di ricerca del suo studio i volti di alcuni politici in competizione fra loro. I soggetti hanno saputo prevedere, con una precisione del 70 per cento, quale dei due candidati avrebbe vinto le elezioni.

Usando questa sua capacità di valutazione, Julia notò subito che Rob era bello, ma che non era uno di quegli uomini così belli da non aver bisogno di essere interessanti. Mentre lui la stava spogliando con gli occhi, lei al contrario lo stava vestendo. Rob indossava pantaloni di velluto a coste marroni –chiaro riferimento alla civiltà occidentale– e un pullover di un colore indefinibile tra il porpora e il marrone: nell’insieme sembrava un’elegantissima melanzana. Aveva guance piene, ma non tanto da somigliare a un furetto, segno che sarebbe invecchiato bene e che un giorno sarebbe diventato il più bell’uomo di tutto il ricovero per anziani.
Era alto, e poiché secondo uno studio nell’America di oggi ogni pollice (due centimetri e mezzo, più o meno) di statura corrisponde a seimila dollari di salario annuo, la cosa ha il suo peso. Irradiava anche una sorta di calma interiore, tipica delle persone che trovano esasperanti le discussioni. Sembrava essere, al rapido giudizio di lei, una di quelle creature benedette dalla sorte, senza callosità profonde che gli attraversassero la psiche, né alcuna ferita da nascondere o di cui diffidare.
Ma appena le valutazioni positive iniziarono a sommarsi, lo schema mentale di Julia ebbe uno scarto. Julia sapeva che uno dei suoi peggiori difetti era quello di avere un ipercritico grillo parlante interiore. Magari le capitava di sentirsi bene in compagnia di qualche ragazzo apparentemente normale, ma ecco che subito cominciava la radiografia. Prima di aver finito, lei era Dorothy Parker e il poveretto una metaforica pozza di sangue sul pavimento.
Il grillo parlante interiore di Julia notò che Rob era uno di quei ragazzi convinti che a nessuno importi veramente se hai le scarpe ben lucide. Le unghie delle sue mani erano tagliate in modo irregolare. Per giunta era scapolo. Julia non si fidava degli scapoli perché li riteneva poco seri, e dato che non sarebbe mai uscita con un uomo sposato, questo riduceva drasticamente il bacino di uomini di cui avrebbe potuto acriticamente innamorarsi.

John Tierney, editorialista del New York Times, sostiene che molti single siano afflitti da un “difettometro”, un meccanismo interiore che individua all’istante i difetti di un potenziale compagno o compagna. Un uomo può essere brillante e di bell’aspetto, dice Tierney, ma viene scartato perché ha i gomiti sporchi. Una donna può essere socia di un importante studio legale, ma su di lei viene posto il veto come partner per la vita perché non pronuncia correttamente il nome di Goethe.

Julia aveva buone ragioni per allinearsi a ciò che gli scienziati chiamano il luogo comune “gli uomini sono porci”. Le donne tendono ad affrontare le situazioni sociali con una struttura decisionale inconscia che parte dal presupposto che agli uomini interessi fare sesso e nient’altro. Sono come dei rilevatori di fumo ipersensibili, disposte ad essere messe in allarme senza motivo perché è meglio sbagliare per eccesso di prudenza che per essersi fidate troppo facilmente. Gli uomini, d’altro canto, hanno il pregiudizio opposto: immaginano che vi sia interesse sessuale là dove non ne esiste affatto.

Julia passò attraverso cicli di speranza e di sfiducia nel giro di pochi istanti. La marea delle sue opinioni stava tristemente andando a sfavore di Rob. Il grillo parlante era scatenato. Poi però, per sua fortuna, Rob si avvicinò e le disse ciao.

 

 

Il Pranzo

Era scritto nel destino: Rob e Julia erano fatti l’uno per l’altra. Malgrado ciò che possiate aver sentito sul fatto che gli opposti si attraggono, in genere ci si innamora di persone affini. Come ha scritto Helen Fisher, «la maggior parte degli uomini e delle donne si innamorano di individui della stessa provenienza etnica, sociale, religiosa, stesso grado di istruzione e livello economico, di analoga bellezza fisica, di analoga intelligenza, di simili attitudini, aspettative, valori, interessi e competenze sociali e comunicative». Esistono anche prove scientifiche del fatto che si tenda a scegliere partner con un naso di dimensioni simili al proprio e occhi posti quasi alla stessa distanza.
Uno degli effetti collaterali di questo schema è che le persone tendono involontariamente a trovarsi un partner fra le persone che hanno vissuto vicino a loro almeno per un certo periodo della vita. Uno studio condotto negli anni Cinquanta del Novecento riscontrò che il 54 per cento delle coppie che avevano chiesto una licenza di matrimonio a Columbus, Ohio, viveva entro sedici isolati di distanza al momento in cui aveva iniziato a frequentarsi, e il 37 per cento entro cinque isolati. Al college è molto più probabile che ragazzi e ragazze escano con compagni e compagne che stanno in dormitori vicini al proprio. La familiarità fa crescere la fiducia.

Rob e Julia scoprirono di avere molto in comune: avevano appeso al muro lo stesso poster di Edward Hopper, erano stati nella stessa stazione sciistica nello stesso periodo e avevano opinioni politiche simili. Scoprirono che entrambi amavano Vacanze romane, la pensavano alla stessa maniera sui personaggi di The Breakfast Club e condividevano la stessa impressione che fosse segno di eccessiva ricercatezza disquisire di quanto si amino le poltrone Eames e i dipinti di Mondrian.
Inoltre entrambi ostentarono conoscenze da esperti su cose molto prosaiche quali gli hamburger o il tè freddo. Entrambi esagerarono nel ricordare quanto fossero popolari alle scuole superiori. Avevano frequentato gli stessi locali e visto le stesse rock band negli stessi tour. Era come se tutta una serie di tasselli del puzzle andassero magicamente al loro posto. Di solito la gente sopravvaluta l’originalità della propria vita, quindi i punti in comune che si riscontrano con gli altri sembrano una sorta di miracolo. Tutte queste coincidenze diedero perciò alla loro relazione un alone di cosa scritta nel libro del destino.

Senza rendersene conto stavano anche verificando la reciproca compatibilità intellettiva. Come osserva Geoffrey Miller, le persone tendono a scegliere partner di intelligenza simile alla propria, e il mezzo più semplice per misurare l’intelligenza di qualcun altro è esaminare il vocabolario che utilizza. Le persone con un quoziente di 80 potranno conoscere termini come stoffa, enorme e nascondere, ma non termini come sentenza, consumo e commercio. Le persone con un quoziente di 90 conosceranno questi ultimi tre, ma probabilmente non designare, ponderare o riluttante. Quindi, nella fase in cui si sta facendo conoscenza, subconsciamente si verifica se i reciproci vocabolari coincidono o se comunque c’è una certa convergenza.

La cameriera si avvicinò al loro tavolo: ordinarono prima da bere e poi da mangiare. É ovvio che si sceglie quello che si ordinerà, mentre non è altrettanto ovvio che si sceglie ciò che piace. Le preferenze prendono forma al di sotto del piano della consapevolezza: accadde così che a Rob piaceva il cabernet ma non il merlot, però Julia ordinò un bicchiere del primo, così Rob fu costretto a optare per il secondo, giusto per sembrare differente. Il cibo poi era terribile, anche se fu un pranzo meraviglioso. Rob in effetti non era mai stato in quel ristorante, ma lo aveva scelto su consiglio del loro comune amico, il quale era sempre molto sicuro dei propri giudizi. Si rivelò essere uno di quei ristoranti con insalate “inafferrabili”, nel vero senso della parola. Julia, previdente, aveva scelto un antipasto che potesse essere agevolmente inforcato, e poi un piatto che non richiedesse troppa abilità con il coltello. Rob invece aveva ordinato un’insalata, che sul menu suonava bene, ma che era fatta di tentacoli verdi che andavano in tutte le direzioni e non c’era verso di ficcarseli in bocca se non spalmandosi in faccia cinque centimetri di condimento. In una sorta di nostalgia per l’alta cucina degli anni Novanta, scelse poi come secondo un piatto a tre strati formato da una bistecca con contorno di patate e cipolle che sembrava la Torre del Diavolo di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Riuscire a tagliarne un boccone era come staccare uno strato geologico dal Monte Rushmore.
Ma niente di tutto questo importava, perché fra Rob e Julia era scattata la fatidica scintilla.

Durante la portata principale Julia raccontò la sua storia, come era stata cresciuta in famiglia, i suoi interessi all’università, il suo lavoro come pubblicitaria e le relative frustrazioni, e anche l’idea di avviare un giorno o l’altro una società di pierre usando la tecnica del marketing virale.
Mentre illustrava i suoi progetti di vita, Julia si sporgeva verso Rob. Beveva piccoli sorsi d’acqua in rapida successione, masticava a velocità incredibile, come uno scoiattolo, così da poter continuare a parlare. La sua energia era contagiosa. «Oh, sì! Sarebbe bellissimo!» esclamava entusiasta. «Questo potrebbe cambiare tutto!».

Il 90 per cento della comunicazione emotiva è non-verbale. I gesti sono un linguaggio inconscio che usiamo non solo per esprimere le nostre sensazioni, ma anche per indurle negli altri. Facendo un gesto una persona contribuisce a generare uno stato interiore. Rob e Julia si leccavano le labbra, si sporgevano l’uno verso l’altra dalle rispettive sedie, si lanciavano sguardi fugaci con la coda dell’occhio e mettevano in atto tutti i trucchetti inconsci tipici di quando si flirta. Senza rendersene conto, Julia muoveva la testa come fanno normalmente le donne per segnalare l’eccitazione, una leggera inclinazione del capo che espone il collo alla vista. Lei, che si considerava forte e determinata, sarebbe inorridita se avesse potuto vedersi in quel momento, perché sembrava in tutto e per tutto una copia di Marilyn Monroe: gettava i capelli all’indietro, alzava le braccia e si passava le mani fra i capelli per sistemarli, sollevava il petto per metterlo bene in vista.
Julia non aveva ancora capito quanto le piacesse chiacchierare con Rob. La cameriera però notò l’aspetto febbrile dei loro volti e ne fu compiaciuta, dato che gli uomini al primo appuntamento di solito lasciano le mance più generose. L’importanza di quel pranzo venne colta solo dopo qualche giorno. Per gli anni a venire Julia avrebbe ricordato ogni minimo particolare di quell’incontro, non solo il fatto che il suo futuro marito si era mangiato tutto il pane nel cestino.

E in mezzo a tutto questo, la conversazione scorreva. Inesauribile. Le parole sono il combustibile del corteggiamento. Le altre specie conquistano i partner con una serie di danze via via più intense; gli umani usano la conversazione. Geoffrey Miller dice che la maggior parte degli adulti ha un vocabolario di circa sessantamila parole. Per costruirselo i bambini devono imparare dalle dieci alle venti parole al giorno, dai diciotto mesi ai diciotto anni. Eppure le cento parole più frequenti sono quelle che determinano il 60 per cento di tutte le conversazioni; e le quattromila più comuni il 98 per cento. Perché allora gli esseri umani si danno tanto da fare per imparare quelle altre cinquantaseimila parole?
Miller sostiene che si imparino questi vocaboli per poter impressionare e selezionare potenziali partner. Ha calcolato che se una coppia parla per due ore al giorno, e pronuncia una media di tre parole al secondo, e fa sesso per tre mesi prima di concepire un figlio (che sarebbe stata la norma nelle savane preistoriche), ne risulta che avrà scambiato circa un milione di parole prima del concepimento. Un milione di parole sono tante: una marea di opportunità per offendersi, annoiarsi o darsi fastidio a vicenda. Un’ampia gamma di occasioni per litigare, riappacificarsi, esplorare e correggersi. Se una coppia è ancora unita dopo tutto questo gran parlare, c’è una buona possibilità che lo rimanga per tutto il tempo necessario ad allevare un bambino.

I genitori di Harold erano solo alle prime migliaia di parole di quelle che, nel corso della loro vita, sarebbero diventate milioni e milioni, e tutto stava andando alla grande. Se volessimo dar retta agli stereotipi culturali, le donne sono il più romantico fra i due sessi. In realtà moltissime prove dimostrano che gli uomini si innamorano più velocemente e aderiscono con maggiore convinzione all’idea che l’amore duri per sempre. Per cui gran parte delle conversazioni, di quel giorno e di parecchi mesi a seguire, avrebbe avuto come scopo quello di indurre Julia ad abbassare la guardia.
Se gli amici di Rob l’avessero visto, non lo avrebbero riconosciuto. Parlava con cognizione di causa della sua relazione. Sembrava del tutto inconsapevole delle sue doti fisiche, anche se non era un mistero che in altre circostanze era rimasto a fissarsi con ammirazione le braccia davanti allo specchio anche per svariati minuti di fila. In lui ogni traccia di cinismo era scomparsa. Di norma gli uomini occupano due terzi del tempo di una conversazione a parlare di se stessi, mentre adesso Rob era concentrato esclusivamente sui problemi di Julia. Sempre David Buss ci dice che la gentilezza sia la qualità maggiormente desiderata in un partner sessuale sia dagli uomini sia dalle donne. Il corteggiamento è fatto in larga misura di manifestazioni di simpatia, in cui i partner tentano di dimostrarsi reciprocamente quanto possano essere comprensivi, come puoò testimoniare chiunque abbia visto delle coppie alle prime uscite insieme a dei bambini o a dei cani.
Naturalmente ci sono altri (meno nobili) calcoli che vengono fatti quando si sceglie un compagno o una compagna. Agendo come espertissimi operatori finanziari, le persone rispondono in maniere prevedibili, per quanto inconsce, alle valutazioni del mercato sociale, cercando istintivamente il massimo rendimento possibile per il proprio valore di mercato. Più un uomo è ricco, più è giovane la donna che avrà probabilità di sposare. Più bella è una donna, più ricco sarà l’uomo. L’avvenenza di una donna è uno dei principali fattori predittivi del reddito annuale del marito.
Gli uomini che sono deficitari in uno dei parametri che misurano lo status sociale possono compensare se raggiungono alti livelli in altri. Parecchi studi sugli appuntamenti online hanno dimostrato che gli uomini bassi di statura possono avere pari successo in questo “mercato degli incontri” se guadagnano più degli uomini alti. Günter Hitsch, Ali Hortaçsu e Dan Ariely hanno calcolato che un uomo alto un metro e settanta può andare bene come uno alto dal metro e ottanta in su se guadagna 175.000 dollari all’anno in più di quest’ultimo. Un afroamericano puoò avere buone prospettive con donne bianche se guadagna 154.000 dollari all’anno in più di un bianco con caratteristiche analoghe. (Le donne sono molto più restie degli uomini a uscire con persone non appartenenti al proprio gruppo etnico.)

Insieme a tutto il resto, Rob e Julia, inconsciamente, stavano facendo anche questo genere di calcoli: soppesare il rapporto fra reddito e aspetto fisico, valutare il saldo fra capitale e livello sociale. E tutti i segnali lasciavano pensare che avessero trovato un buon abbinamento.

 

 

La passeggiata

La cultura umana esiste in larga misura allo scopo di reprimere i desideri naturali della specie. La tensione del corteggiamento è prodotta dal bisogno di rallentare quando invece gli istinti vorrebbero mettersi a correre. A questo punto tanto Rob quanto Julia stavano provando dei forti impulsi, ed erano terrorizzati dal rischio di dire qualcosa di troppo impetuoso, di spingersi troppo in là. Le persone brave a corteggiare sono capaci di cogliere la melodia e il ritmo di una relazione. Attraverso un reciproco processo di lettura dell’altro e di controllo di se stessi, un rapporto potrà riuscire o meno a stabilire una propria sincronicitaà, ed è attraverso questo processo che si fissano anche i ruoli impliciti che in seguito governeranno per sempre i comportamenti di lui e di lei.

«La più grande felicità che l’amore possa dare è la prima stretta di mano della donna che si ama» ha scritto Stendhal. A questo punto i genitori di Harold stavano conducendo quella sorta di interazione verbale che è non tanto una conversazione quanto qualcosa di più simile al grooming, la pratica di spulciarsi a vicenda dei primati. Quando si alzarono da tavola, Rob avrebbe voluto posare una mano sul fianco di Julia per guidarla verso la porta, ma ebbe paura che a lei potesse infastidire l’intimità implicita in quel gesto. Fra sé e sé Julia si rammaricò di aver portato la borsa da tutti i giorni, grande più o meno come un minivan, capace di contenere libri, telefoni, cercapersone e all’occorrenza anche un motorino. Quel mattino aveva temuto che portare una borsetta più piccola sarebbe parso troppo speranzoso, troppo “da appuntamento”; ed ecco che ora si ritrovava in uno dei più importanti pranzi della sua vita, e aveva sbagliato borsa!

Alla fine Rob le toccò il braccio mentre oltrepassavano la porta, e lei lo guardò con un sorriso fiducioso. Percorsero il marciapiedi passando accanto ai negozi di lusso, inconsapevoli che stavano già facendo la passeggiata degli amanti: corpi ravvicinati che irradiano gioia nello spazio davanti a loro.

Julia si sentiva davvero a suo agio con Rob. Per tutto il pranzo lui l’aveva guardata attentamente, non con quello sguardo rapito e ossessivo che Jimmy Stewart posava su Kim Novak in La donna che visse due volte, ma con un modo di fissarla intenso che l’aveva coinvolta. Da parte sua Rob aveva effettivamente i brividi mentre accompagnava Julia all’auto. Il cuore gli batteva a mille, la respirazione era velocissima. Gli sembrava di essere stato straordinariamente spiritoso durante il pranzo, incoraggiato dagli occhi fiammeggianti di lei. Fu attraversato da vaghe sensazioni, che sul momento non capì a fondo. In modo sfrontato le chiese di vederla il giorno dopo; naturalmente lei rispose di sì. Non voleva limitarsi a stringerle la mano, ma un bacio era troppo, così le strinse un braccio e le sfiorò una guancia con la propria.
Durante questa specie di abbraccio, Julia e Rob percepirono i feromoni l’uno dell’altra. I loro livelli di cortisolo calarono bruscamente. In queste situazioni l’olfatto è un senso molto potente. Le persone che perdono la capacità di sentire gli odori subiscono un maggiore deterioramento emotivo di quelle che perdono la vista: l’olfatto è un mezzo efficacissimo per leggere le emozioni. In un esperimento condotto al Monell Center, presso lo University City Science Center di Philadelphia, i ricercatori chiesero ad alcuni uomini e donne divisi in gruppi distinti di guardare un film dell’orrore e una commedia brillante, tenendo un tampone fissato sotto le ascelle. Dopo di che i soggetti della ricerca (“profumatamente” pagati, mi viene da pensare a questo punto) annusarono i tamponi, e furono in grado di riconoscere con una precisione tale da escludere la casualità quali fossero i tamponi di chi aveva riso e quali avessero l’odore della paura; e le donne riuscirono nel compito molto meglio degli uomini.

Più avanti nella loro relazione, Rob e Julia avrebbero assaggiato la saliva dell’altro e in questo modo raccolto informazioni genetiche. Secondo una famosa ricerca condotta da Claus Wedekin dall’Università di Losanna, le donne sono attratte da uomini nel cui dna il codice dell’antigene umano leucocitario (hla) è il più possibile diverso dal proprio. Si ritiene infatti che una codificazione hla complementare produca migliori sistemi immunitari nella prole.
Aiutati dalla chimica e sull’onda dei sentimenti, Rob e Julia avevano la sensazione che quello fosse stato uno dei colloqui più importanti della loro vita. In effetti quelle due ore si rivelarono essere le più cruciali che avrebbero mai trascorso, non essendoci decisione più importante per una felicità durevole di quella che riguarda la persona da sposare. Già nell’arco di quel primo pomeriggio avevano iniziato a prendere una decisione.
Il pranzo era stato delizioso, sì, ma entrambi avevano anche superato un esame mentale così rigoroso che al confronto il test di ammissione all’università era un gioco da ragazzi. Entrambi avevano trascorso gli ultimi centoventi minuti eseguendo delicati compiti sociali. Avevano dimostrato spirito, compiacenza, empatia, tatto e tempismo. Avevano obbedito a una norma sociale che nella loro cultura si applica ai primi appuntamenti. Avevano formulato un migliaio di giudizi selettivi. Avevano misurato le loro risposte emotive con una tale precisione che nessuna macchina avrebbe potuto eguagliare. Avevano decodificato gesti silenziosi: un sorriso, uno sguardo, la condivisione del significato di una battuta, una pausa pregnante. Si erano posti attraverso tutta una serie di schermi e di filtri, valutando costantemente la prestazione dell’altro e la propria. Ogni cinque minuti si erano concessi di avvicinarsi di un passo l’uno all’altra, nella costruzione di un’intimità sentimentale.
Questi compiti mentali erano sembrati facili solo perché l’intera storia della vita sul pianeta aveva preparato Rob e Julia per quel momento. Non avevano dovuto fare un corso per imparare a prendere tutte queste decisioni relative ai legami sociali, così come si deve fare, poniamo, un corso di algebra. Quasi tutto il lavoro mentale era stato compiuto a livello inconscio, apparentemente senza sforzi, proprio come qualcosa di naturale.

Fino a quel momento Rob e Julia non potevano ancora tradurre le proprie conclusioni in parole, perché le loro sensazioni non si erano distillate in un messaggio consapevole. La scelta di innamorarsi sarebbe scaturita da dentro. Non sembrava che avessero preso una decisione, ma che ne fossero stati presi. Si era generato un desiderio l’una per l’altro; si era anche generato –ma questo avrebbero impiegato del tempo a capirlo– un enorme impegno verso l’altro. Il cuore, diceva Blaise Pascal, ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
Ma è così che funzionano le decisioni. É così che giungiamo a sapere quello che vogliamo, non soltanto quando si tratta di sposarsi, ma in molti altri importanti ambiti dell’esistenza. Scegliere chi amare non è un processo decisionale strano, alieno, un romantico interludio in mezzo alla normalità dell’esistenza. Al contrario, le decisioni di questo tipo sono versioni più intense di tutte le altre che si prendono durante tutta la vita, da quale piatto ordinare a quale carriera intraprendere. Il processo decisionale è una faccenda profondamente emotiva.

 

 

Il ruolo dell’amore
Quando si tratta di approfondire la conoscenza di noi stessi, i progressi avvengono nei modi più strani. Uno dei più importanti passi in avanti che ci hanno consentito di comprendere meglio l’interazione fra emozioni e decisioni lo dobbiamo a un uomo di nome Elliot, la cui storia è diventata una delle più celebri nel mondo delle neuroscienze. Elliot aveva subito delle lesioni ai lobi frontali del cervello in seguito alla rimozione chirurgica di un tumore. Era un uomo intelligente, con una buona cultura e una più che discreta capacità diplomatica, e affrontava le cose della vita con un pizzico di piacevole ironia. Dopo l’intervento, però, iniziò ad avere gravi problemi nella gestione delle sue giornate. Ogni volta che cercava di portare a termine qualcosa ignorava gli aspetti più importanti di quello che stava facendo e si lasciava distrarre da dettagli marginali. Se al lavoro doveva archiviare dei documenti, si sedeva e iniziava a leggerli, o magari impiegava una giornata intera a cercare di decidere in che modo archiviarli. Passava ore a pensare dove andare a pranzo, e alla fine non riusciva ad andare da nessuna parte. Fece degli investimenti insensati che gli costarono i risparmi di una vita. Divorziò, sposò una donna che la sua famiglia disapprovava, divorziò di nuovo. In poche parole, era incapace di fare delle scelte sensate.
Elliot andà a farsi visitare da un neuroscienziato di nome Antonio Damasio, che gli fece fare una serie di test, da cui emerse che il paziente possedeva un quoziente intellettivo superiore alla media, aveva un’eccellente memoria per numeri e disegni geometrici e riusciva molto bene a fare stime avendo a disposizione dati incompleti e frammentari.
Damasio notò però anche un’altra cosa: durante le molte ore di conversazione Elliot non mostrò mai alcuna emozione. Poteva raccontare la tragedia che aveva travolto la sua vita senza dar segno di provare la minima traccia di sofferenza. Il neuroscienziato fece vedere al paziente immagini scioccanti di terremoti, incendi, incidenti, alluvioni. Elliot sapeva a livello razionale che avrebbe dovuto avere una qualche reazione emotiva di fronte a quelle scene; il fatto è che davvero non provava niente. Damasio iniziò a indagare se le risposte emotive deficitarie di Elliot avessero un ruolo in quei suoi catastrofici processi decisionali.
Una serie ulteriore di test dimostrò che Elliot riusciva a prefigurare opzioni diverse, esplicitandole a parole, rispetto a una certa situazione che richiedeva una decisione. Era in grado di comprendere i conflitti fra due imperativi morali. In sostanza, sapeva preparare se stesso a compiere una scelta fra una gamma complessa di possibilità. Quello che proprio non riusciva a fare era giungere al punto di decidere. Era incapace di assegnare valori differenti a opzioni differenti, «rendendo il paesaggio del suo processo decisionale irrimediabilmente piatto» concluse Damasio.
Un altro dei soggetti di ricerca di Damasio mostrava lo stesso fenomeno ma in forma ancora più acuta. Era un uomo di mezza età, anche lui privo delle funzioni emotive a causa di lesioni cerebrali. Una volta, dopo uno dei loro colloqui, Damasio suggerì due date possibili per l’incontro successivo. Il paziente tirò fuori la sua agenda e iniziò a elencare i pro e i contro di ciascuna alternativa. Andò avanti così per mezz’ora, considerando potenziali impedimenti, possibili condizioni atmosferiche dei due giorni in questione, la prossimità di altri appuntamenti e così via. «Ci vuole un enorme sforzo di autocontrollo per stare ad ascoltarlo senza picchiare un pugno sul tavolo e gridargli di smetterla» ha scritto Damasio. Tuttavia, d’accordo con i suoi colleghi ricercatori che lo stavano assistendo durante il test, lasciò che l’uomo proseguisse, e continuò a osservarlo. Alla fine lo interruppe e decise lui la data del successivo appuntamento. Senza battere ciglio il paziente rispose «Va bene», e se ne andò.
«Ecco un bell’esempio dei limiti della ragion pura» ha scritto Damasio. Il tipico caso di come la mancanza di emozioni porti a comportamenti autolesivi e pericolosi. Gli individui privi di emozioni non possono condurre un’esistenza ben pianificata secondo criteri logici (alla maniera del freddo e razionale signor Spock di Star Trek, tanto per intenderci), ma vivono una vita insensata. In casi estremi possono diventare dei sociopatici, indifferenti alla crudeltà e insensibili verso il dolore altrui.
Grazie a questi e altri studi, Damasio ha elaborato una teoria, che ha definito ipotesi del marcatore somatico, sul ruolo delle emozioni nelle facoltà cognitive umane. Alcuni suoi aspetti sono molto dibattuti (gli scienziati non concordano sull’entità delle interazioni fra cervello e corpo), ma il suo punto cardine è che le emozioni misurano il valore di una certa cosa e contribuiscono a guidarci inconsciamente attraverso la vita: ci allontanano da ciò che probabilmente ci procurerà dolore e ci spingono verso ciò che probabilmente ci procurerà gratificazione. «Essi [i marcatori somatici] non deliberano per noi; assistono il processo illuminando alcune opzioni (pericolose o promettenti) ed eliminandole presto dall’analisi successiva; li si può vedere come un sistema di automatica qualificazione delle previsioni che opera –lo si voglia o no– valutando i più diversi scenari del prevedibile futuro che si prospetta. Li si può immaginare come dispositivi che attribuiscono un “segno”».

Nella vita di tutti i giorni siamo bombardati da milioni di stimoli: un caos di suoni, visioni, odori e gesti. Eppure, in mezzo a questa pirotecnica confusione, parti diverse del cervello e del corpo interagiscono andando a creare un sistema di posizionamento emozionale (emotional positioning system, eps). Come il gps, il sistema di posizionamento globale che abbiamo sulle automobili, l’eps percepisce la situazione in cui ci troviamo e la rapporta alla messe di dati immagazzinati in memoria. Valuta se la circostanza del momento possa produrre esiti positivi o negativi, e poi “connota” ogni persona, luogo o avvenimento con un’emozione (paura o eccitamento, ammirazione o ripugnanza) e una rispettiva reazione (sorridi/non sorridere; avvicinati/scappa più lontano che puoi) che ci aiuta a muoverci nella vita.

Mettiamo che la persona seduta di fronte a noi in un ristorante ci tocchi una mano attraverso il tavolo. All’istante la mente cerca nella memoria serie di eventi simili. Forse c’era una scena in Casablanca nella quale Humphrey Bogart toccava la mano di Ingrid Bergman. Forse un appuntamento alle superiori, tanti anni fa. Forse un lontano ricordo della mamma che aveva fatto lo stesso gesto in una delle prime uscite da McDonald’s.

La mente seleziona e codifica, il corpo risponde, il cuore accelera, l’adrenalina aumenta, spunta un sorriso. I segnali scorrono dal corpo al cervello e viceversa in sequenze rapide e intricate. Il cervello non è separato dal corpo: ecco l’errore di Cartesio. Il livello fisico e quello mentale sono connessi fra loro in complesse reti di reazioni e controreazioni, dalle quali emerge un valore emotivo: il contatto della mano è stato a quel punto dotato di un significato: qualcosa di buono, qualcosa di molto piacevole.
Un attimo più tardi si apre un’altra serie di sequenze, un altro ciclo di reazioni reciproche fra le parti evolutivamente più antiche del cervello e le più recenti, come la corteccia prefrontale. Questo flusso di informazioni è più lento ma più sofisticato: può partire dalle reazioni già ottenute dal primo sistema e operare distinzioni più sottili (“Questa mano che mi tocca attraverso il tavolo non è proprio come la mano di mia madre. É più come la mano di un’altra persona con la quale desideravo fare sesso”). Può anche lanciare avvertimenti che suggeriscono di andarci piano (“In questo momento sono così felice che vorrei prendere questa mano e iniziare a baciarla, ma ho certi ricordi di persone che vanno fuori di testa quando faccio cose come questa”).
Anche durante buona parte di questa fase non c’è ancora consapevolezza, sostiene Joseph LeDoux, un altro eminente neuroscienziato. Il contatto della mano è stato percepito e ripercepito, selezionato e riselezionato, il corpo ha reagito, si sono delineati dei progetti, preparate delle reazioni, e tutta questa complessa attività è accaduta al di sotto del livello cosciente e in un tempo rapidissimo. Oltretutto questo processo non avviene solo durante un appuntamento galante, con lo sfiorarsi delle mani, ma anche al supermercato, quando si passano in rassegna le confezioni di cereali, o al lavoro, quando si considerano differenti opportunità di carriera. Il sistema di posizionamento emozionale connota tutte le possibilità con un valore emotivo.
In ultimo, alla fine di queste complesse catene di feedback, un desiderio affiora alla coscienza: il desiderio di scegliere quella certa scatola di cereali o quella certa professione, o di stringere la mano, toccare quella persona, stare con lei per sempre. L’emozione emerge dal profondo. Potrà non sempre essere un impulso brillante, a volte ci pilota saggiamente a volte ci porta fuori strada; comunque sia, ha il controllo della situazione. La si può ignorare, ma è lei a sospingerci e a guidarci. Come scrive LeDoux: «Sono questi [gli stati del cervello e le risposte del corpo] i fatti fondamentali di un’emozione, e i sentimenti coscienti sono solo decorazioni, la ciliegina sulla torta emotiva».

 

 

Implicazioni
Questa spiegazione del processo decisionale conduce ad alcune verità fondamentali. Ragione ed emozione non sono entità opposte e separate. La ragione è annidata nell’emozione e ne è dipendente. L’emozione assegna valori alle cose, e la ragione può compiere delle scelte solo sulla base di queste valutazioni. La mente umana può essere pragmatica perché nel suo profondo è romantica.
Inoltre la mente, o il sé, non è un blocco monolitico ma una serie di processi paralleli estremamente complicata. Non c’è nessun capitano nella cabina di comando a prendere decisioni. Non c’è nessun teatro cartesiano, ovvero un punto in cui tutti i differenti processi e le differenti possibilità si riuniscono per essere classificate e in cui si pianificano le azioni. Al contrario, come ha affermato il premio Nobel Gerald Edelman, il cervello è un ecosistema, un network associativo meravigliosamente complesso nel quale attivazioni, schemi, reazioni e sensazioni comunicano fra di loro e rispondono a parti diverse del cervello stesso, tutti in competizione per ottenere una quota di controllo sull’organismo.
Infine, siamo principalmente degli esseri erranti, non delle macchine decisionali. Nel secolo scorso si tendeva a concepire il processo decisionale come un momento in un certo senso “culminante”: si radunavano fatti, circostanze e prove, e poi si compiva una scelta. É più corretto invece affermare che siamo dei pellegrini in un paesaggio sociale. Ci muoviamo casualmente in un ambiente fatto di persone e possibilità. In questo nostro vagabondare, la mente formula una quantità pressoché infinita di giudizi di valore, che si accumulano a formare obiettivi, ambizioni, sogni, desideri e modi di fare le cose. La chiave per una vita ben vissuta è avere allenato le emozioni a mandare i segnali giusti ed essere sensibili ai loro sottili richiami.
Rob e Julia non erano le persone più istruite della terra, né le più profonde. Ma sapevano amare, e mentre erano seduti al ristorante, sempre più attenti e concentrati l’uno verso l’altra, le loro emozioni inviavano un rapido flusso di segnali direzionali e modellavano intere sequenze di piccole decisioni, orientando così passo dopo passo le loro esistenze.

«Tutta l’elaborazione delle informazioni è emozionale» scrive Kenneth Dodge «in quanto è l’emozione la forza che guida, organizza, amplifica e attenua l’attività cognitiva, per essere poi a sua volta l’espressione di questa attività e l’esperienza che ne scaturisce».
Rob e Julia si assegnavano dei valori, reciprocamente. Si sentivano trascinati lungo una corrente impetuosa e quanto mai piacevole che li stava portando verso un punto dove loro volevano a tutti i costi arrivare. Non era quella specie di analisi al microscopio compiuta dal grillo parlante interiore di Julia quando lei diede la prima occhiata a Rob. Questa era una potente valutazione d’insieme che seguiva regole del tutto diverse. Julia si sarebbe innamorata, e in seguito si sarebbe inventata delle ragioni per il suo essersi sentita attratta. Quel giorno lei e Rob iniziarono a vagabondare insieme lungo un percorso che sarebbe stato il più gratificante della loro vita».

 

David Brooks - L'animale sociale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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